Una cosa che ho sempre trovato fastidiosa è quella di trovarmi a leggere articoli fiume che ricordano le gesta del santone di turno, dell’irraggiungibile genio o dell’immanente figura santa del musicista che ci ha appena lasciato. Un pietoso necrologio appunto.
Tuttavia è doveroso ricordare come, per quanto bastarda sia, la memoria venga alimentata, costantemente sorretta proprio da questo delicato guardarsi indietro, lasciandoci più vuoti.
Perdite, sofferte e dolorose, ci sono state e ci saranno sempre. Di certo non saremo noi a fermare il tempo. Eppure, cercando di aggirare per quanto possibile ogni inciampo retorico, cercherò di commemorare colui che non ha solo coniato un genere, ma è anche andato oltre.
Un gigante – mi scappa un sorriso quando lo scrivo, vista la sua gracile figura – che ha deciso di sedersi davanti alle pelli per duettare con l’amato charleston.
Badate bene, duettare e non pestare. Tony non era di quelli che ammaccavano i fusti o bastonavano le percussioni, lui semmai le accarezzava. Dopotutto la sua vera scuola era il jazz americano, acciuffato qua e là, tra i rari ascolti che potevano bagnare la natia Lagos degli anni sessanta.
Il Panafricanismo
Ogni rivoluzione che si rispetti ha un vero e proprio evento scatenante, ma è altresì vero che per essere detonata, una bomba deve sottendere un tessuto pronto a deflagrare all’occorrenza.
È questo Fela Kuti fu per Tony: la miccia.
Fela, eversivo ribelle congiunto idealmente alla questione nera, promossa oltreoceano, fu colui che raccolse a sé tutti gli inni idealisti, religiosi e barricadieri della Nigeria del periodo. Li convogliò prima in un progetto dalla forte influenza highlife (Koola Lobitos), quindi animata principalmente da una potenza di fiati esplosiva, per poi approdare in quella mescolanza di stili a nome Afro-beat.
Maratone trance, marcette free, sporco funk e strombazzanti e liberatori assoli di sax furono la summa di questo trattato afro-futurista scritto in musica.
Ma questa minacciosa e militante arte necessitava di un prodigioso rigore per non mandare tutto in vacca. Una capacità manipolatoria tale da tramare schemi ritmici che potessero tramutare un caotico lamento in messaggio generazionale.
È questo Tony Allen fu per Fela: il metronomo.
A detta dello stesso leader, senza Tony Allen non ci sarebbero stati i Fela Kuti Africa 70.
Fuor di dubbio è il fatto che The Black President (soprannome di Fela Kuti) dispensasse agilmente complimenti, pertanto possiamo dire che la stima ottenuta fu guadagnata sul campo di battaglia.
Tutti gli anni ’70 furono un tellurico susseguirsi di album sempre più provocatori, manifestamente contrari a farsi imbrigliare in posizione da soma.
Un incedere così sovraeccitato che portò nell’arco di un ventennio al divorzio dei due. Le incomprensioni con il senno di poi possono essere imputate alla visione folle e sempre più fuori controllo di Fela, conclamato nemico pubblico della polizia locale.
La finestra sul mondo
Forse, non furono solo i problemi di convivenza a convincere Tony a lasciare il continente nero quasi definitivamente, se non per qualche estemporaneo concerto.
Il motivo poteva essere invece ricercato nella volontà di creare un proprio percorso, svincolato da una figura divenuta tanto sciamanica quanto ingombrante, e forse ancor di più, per vivere un’esistenza più serena.
L’Africa è sempre stata palcoscenico di scontri e convivenze forzate, e il vivere nel vecchio continente sembrava la scelta più giusta per stringere nuove sinergie.
La seconda parte della carriera, divisa tra la permanenze a Londra e Parigi, fu in assoluto il riscatto della propria figura totemica nell’ambiente musicale.
E via con diverse proficue collaborazioni, come con Damon Albarn (The Good, The Bad and the Queen e Rocket Juice & The Moon) e altri decani della musica, tra i tanti Jeff Mills, Moritz Von Oswald o Paul Simonon.
Infine, quasi come ultimo guizzo, il coronamento di un sogno: la possibilità di registrare per l’etichetta che l’ha cresciuto come musicista e ancor prima come semplice amante della musica jazz, la Blue Note.
Nella casa del suo mito di gioventù Art Blakey, Tony decide di siglare un album tributo al suo maestro e infine instillare profetici sprazzi di classe nell’album The Source.
Proprio in quest’ultimo abbiamo l’ennesima riconferma che il talento non si possa annacquare nemmeno con il lento ammucchiarsi delle candeline spente ma anzi si abbeveri costantemente da un’edenica fonte (come il titolo in questione, ndr) della giovinezza.
Un ricongiungersi alle primigenie passioni, una sintattica rievocazione di quello che è stata la carriera di questo impareggiabile fenomeno.
Addio Tony Allen.
Benvenuto Tony Allen.

Bon vivant escapista. Commendevole fricandó di utopie. Indole appocundriaca. Loggionista alticcio.