All’interno della rosa degli artisti presenti all’edizione 2021 del RiOpen Festival, la redazione di RRM blog ha deciso di puntare su un artista molto particolare ed interessante: Gregorio Sanchez.
Ecco a voi, nero su bianco, qualche stralcio della chiacchiera informale che il nostro CEO, Paolo Romano, ed io abbiamo scambiato con Gregorio dopo la sua performance live insieme al maestro Giacomo di Paolo.
Ma prima qualche veloce informazione su Gregorio per permettere, anche a chi ancora non lo conoscesse (e qui lascio il suo profilo Spotify per rimediare subito), di farsi un’idea sull’artista e sull’uomo.
Gregorio Sanchez nasce a Bologna, va a scuola e non si iscrive a calcetto. In casa girano scenografie, tastiere e spartiti e come naturale conseguenza inizia a dedicarsi alla musica fin da piccolo.
Appena adolescente scappa dal Conservatorio, scopre OK Computer, le sale prova, l’home recording spericolato e tutto ciò che lo scenario emiliano degli anni 00 ha da offrire, subendone irreparabilmente le conseguenze.
Durante l’università si trasferisce in Austria, dove si affeziona alla montagna e alle tinte fredde del pop nord-europeo: è in questo periodo che si immerge negli arpeggi dei Kings of Convenience e nella nebbia di Bon Iver, seppur con qualche intervallo di franco buon umore.
Al suo ritorno in Italia ad aspettarlo c’è un disco, Channel Orange, c’è Lucio Dalla e la constatazione di aver inspiegabilmente ignorato qualsiasi altra forma di musica italiana per maggior parte della sua vita.
Così, durante un inverno particolarmente freddo, decide di rimettersi in pari ed in primavera si ritrova in mano il suo primo pezzo in italiano. Di lì a poco arriva il trasferimento a Milano, la voglia di portarsi a casa la malinconia e la tenerezza degli amori che finiscono, scrivere canzoni e costruire un progetto solista.
BIO di Gregorio Sanchez da ROCKIT
L’INTERVISTA
Gregorio, dicci cosa fai, in maniera flash:
La domanda più difficile del mondo…- attimi di esitazione – faccio musica pop, tento di farla curata, perché mi piacciono le cose curate; non faccio musica per vivere, ma perché mi piaccia e parlo sinceramente di cose mie.
Si sente molto bene nei tuoi brani, anche dal vivo, che c’è una grande cura al dettaglio e una inusuale, ma lodevole, scelta di approcciarsi ad una produzione minimal. Le ragioni di questa scelta?
Ci sono un sacco di motivi, ne butto lì due: non apprezzo degli arrangiamenti massimalisti il carattere didascalico, se arriva il ritornello e tu sei in macchina a fare i cazzi tuoi, questi devono fartene per forza sentire l’esplosione e ciò non è sempre molto sincera; poi sono un po’ maniaco del controllo e, sapendo suonare 1 strumento e mezzo, tendo a farmi tutte le produzioni da solo, quindi arrivo ad un punto oltre il quale non riesco ad andare oppure quello che aggiungo non mi piace più.
Quindi, è anche una questione di necessità?
Sì, certo ma c’è anche che amo i dischi minimal, quelli suonati… bene, con pochi strumenti oppure anche l’elettronica alla James Blake, perché ha un suono scelto che vuole dire qualcosa di preciso.
Riguardo alle tue influenze musicali invece?
Sono cresciuto con i Radiohead, i Beatles – E SI SENTE (aggiunge il nostro CEO) – e con un sacco di Math Rock e Pop brasiliano; Frank Ocean mi ha fatto accedere all’R&B e all’Hip Hop e lo ringrazio molto per questo… purtroppo non ho modo di farlo personalmente. Dal 2012 con Channel ORANGE mi sono espanso verso questo genere, avvicinandomi anche a Mac Miller.
Nel panorama del cantautorato italiano, hai qualcuno a cui ti ispiri?
Dalla, l’ho conosciuto tardissimo nonostante lui fosse di Bologna e io ce lo avessi avuto di fianco per tutta la vita. Attualmente mi piacciono un sacco Marco Castello, Lucio Corso e Generic Animal.
Sappiamo che sei stato in Austria per una parte della tua vita, c’è qualcosa in questa esperienza che ha cambiato te e la tua musica?
L’Austria come musica leggera non ha molto da offrire, però, uscendo da un progetto progressive rock sperimentale, mi sono trovato per la prima volta solo con la chitarra e volevo fare pop perché ero felice, in Erasmus, non avevo voglia di emozioni complesse. Fossi stato in Spagna, avrei probabilmente virato sul reggaeton che per fortuna in Austria non c’è. Ho avuto due fasi: una in cui ero insopportabile e ascoltavo solo musica insopportabile un po’ per presa di posizione; e un’altra in cui mi sono aperto e ho capito che anche una musica più fruibile poteva darmi tanto. Una band che mi ha svoltato tanto in Erasmus sono stati i Dodos, una gruppo che unisce il Math a melodie pop e da lì ho capito che si possono fare tutte e due le cose insieme.
Com’è andata la tua estate, tra tour estivo e limitazioni varie?
Ho lavorato molto e durante i giorni di ferie sono stato in giro a suonare. E’ stato tutto molto bello, nonostante ovviamente fosse un compromesso. La gente seduta a me piace, così immaginavo i live quando è partito il mio progetto… però non così, non seduta per forza. In questo momento ai concerti io sento sempre una certa aria di mestizia. Ad ogni modo era per me la prima volta che portavo in giro i miei pezzi, e quelle volte che è successo che qualcuno dal pubblico li cantasse, è stato qualcosa che mi porterò nel cuore per sempre.
Sul palco prima hai parlato di una frase scritta sui muri di Bologna che ha ispirato un tuo brano, ti va di dirci di più?
Non so se posso fare un manifesto programmatico, ma negli ultimi pezzi che ho scritto, senza farlo apposta, ci sono due filoni precisi che forse confluiranno nelle mie prossime pubblicazioni, uno che parla di sentimenti e amore, e un altro che è ispirato al mio interesse verso l’impossibilità di dialogo tra chi non c’è più, chi c’è ora e chi non c’è ancora. La frase che mi ha fatto notare sotto i portici il mio amico Enrico – prima di nascere esistevamo nelle parole dei nostri genitori – mi ha portato ad escludere una dimensione fisica, il tempo, per capire che tutti esistiamo nello stesso luogo e in esso possiamo comunicare con le parole. Questo concetto rende molta giustizia al fatto che si faccia musica, quando non ci sarò più avrò lasciato poco e niente o forse un disco che possa fare da sottopentola da qualche parte.
Qualche personale considerazione finale:
Gregorio è un artista che riflette chiarissimamente la sua personalità semplice nel suo modo sincero e scarno di fare musica. Un arpeggio di chitarra e una storia da raccontare sono quello che gli basta per creare e condividere con gli altri un’emozione. Ancora una volta i ragazzi del Godot – Sound Culture si sono dimostrati finissimi nella scelta degli artisti che si sono esibiti al RiOpen Festival, che hanno saputo portare, insieme all’intero evento, in un weekend qualunque, in una qualunque, ma neanche troppo, Rio Saliceto, un po’ di spensieratezza e allegria, con il loro solito modo di fare le cose con passione, dedizione e spirito di inclusione.
Alcuni link:
Fotografie: Maddalena Montanari
L’artista: Gregorio Sanchez, Spotify
L’etichetta: Garrinchia Dischi
Il festival e l’associazione: RiOpen Festival, Godot – Sound Culture
Gregorio Sanchez – Dall’altra parte del mondo (Official Video)
Gregorio Sanchez – Pesce Lesso (Live al Donkey Studio)
Gregorio Sanchez – Palombaro
Tutto ciò che mi mette il sorriso in un unico quadro: musica live che suona in riva al mare, tanta bella gente e una birretta in mano come fosse una bandiera 😉