Nell’era dei reboot non poteva di certo mancare il rifacimento di High Fidelity.
Ancor più certo è il fatto che non potevo redimermi dallo stilare fatti e misfatti, confronti e raffronti o più semplicemente trattare in maniera ragionata le analogie e differenze tra libro, film e serie tv.
Parto subito nel dire che la serie mi è piaciuta e che nel complesso non scredita le sue fonti di ispirazione, riuscendo al contempo a crearsi una sua particolare dimensione e a distaccarsi dalla potestà genitoriale. Questo non toglie che ho trovato, tra i tanti pregi, anche alcune forzature che andremo ad analizzare di seguito.
L’approccio cercherà di essere scevro di qualsiasi preconcetto mantenendo una linea quanto più “scientifica” possibile nell’esaminare i pros e cons di High Fidelity targata Hulu.
Trama
La scelta di casa Hulu è stata quella di mantenere un solido legame con la controparte stampata, come peraltro fece Stephen Frears con l’omonimo film del 2000.
Qui nulla da obiettare, la storia ideata da Nick Hornby, seppur piuttosto semplice, non necessita di epocali sconvolgimenti. La prosa è talmente cinematografica da concedere solo il quesito di come rappresentarla. In entrambi i casi la sceneggiatura quindi combacia quasi del tutto con il soggetto.
La location diventa Brooklyn, dopo la Chicago del film e la Londra del libro ma poco cambia a livello scenografico.
Il negozio rimane intatto, incastrato in una sacca periferica di un grande, irrequieto e vibrante centro urbano, perennemente vuoto se non per il sabato pomeriggio e per giunta condividendo la stessa insegna: Championship Vinyl.
Tutto ciò non è un male anzi, tutto questo serve per calare lo spettatore, cresciuto nelle due decadi precedenti, in una comfort-zone piacevolmente imbalsamante.
Punteggio finale: Salomonico pareggio con sguardo di devozione alla fonte letterale.
Rob
Qui invece sorgono le prime differenze.
Prima mossa è stata il famigerato genderswap, ovvero il capovolgimento di genere di due terzi dei personaggi principali. In questo, i showrunner hanno sapientemente gettato nella contemporaneità un racconto che altrimenti avrebbe destato una sensazione di eccessivo anacronismo.
La sapiente riscrittura si riverbera non solo nelle fattezze dei protagonisti ma soprattutto nelle ovvie diramazioni contingenti. Rob (diminutivo di Robin), interpretata da Zoe Kravitz, è l’eterna insoddisfatta mollata dal ragazzo dopo una lite. Il medesimo espediente che accomuna i tre formati narrativi porta Rob a interrogare sé stessa, gli amici più stretti e i suoi vecchi amori. Scoprirà che in parte è lei stessa la parziale causa: un implacabile insofferenza di fondo che si ridurrà in una malcelata solitudine.
Per fortuna questo malessere di fondo viene spezzato da qualche scopata fugace. Rob, seppur vestendo spesso i panni che erano della sua controparte maschile, interpretata da Cusack, non riesce mai ad essere troppo maschia e trasandata. Non basta un whisky neat sempre di troppo e un broncio stampato in faccia per tramutarsi in essere respingente. La Kravitz ha una tale forza attrattiva che Cusack se la sogna. Rendendo quest’ultimo ancora più sfigato. Non solo è parecchio spocchiosetto e squattrinato ma pure bruttino. In più il Rob filmico è leggermente più avanti con l’età e sa quanto il perdere l’unica vera chance in amore potrebbe condannarlo all’amarezza più totale. Eppure quell’ironia leggermente fatalista lo rende al contempo tenero come mai nessun sconfitto.
Proprio la possibilità della serie di costruire un personaggio più sfaccettato mi ha fatto prediligere Cusack. L’ovvia opportunità di poter allargare lo sguardo, donando profondità caratteriale finisce per snaturare il sottile sarcasmo e il rassegnato piattume esistenziale del protagonista.
Questo per giustificare il passo: “La Kravitz ha una tale forza attrattiva che Cusack se la sogna”. Ci siamo capiti, no?
Punteggio finale: contro tutto e tutti do il mio gettone al Rob filmico.
Personaggi
Ecco, qua invece non sto nemmeno ad intavolare il discorso.
L’ultima versione di High Fidelity ha dalla sua un minutaggio ben più corposo. Ed in effetti riesce addirittura a prendersi del tempo per dedicare un’intera puntata a Simon, ex di Rob e sodale dipendente del Championship Vinyl.
Dick diventa Simon e Barry diventa Cherry. Il primo mantiene un carattere tendenzialmente taciturno ma con un ispessimento sul fronte dell’ironia. Sa essere divertente con le sue paturnie, i suoi ripensamenti ma al contempo dolce nei modi quando c’è da rincuorare le amiche in crisi. Dick invece con la sua tenerezza disarmante serviva quasi più come contraltare al debordante, pazzo scatenato Barry, un Jack Black in grande spolvero che grazie alla sua interpretazione diede una decisiva svolta alla propria carriera.
Cherise mantiene il puerile egocentrismo e la goffa testardaggine di Barry, rispettando inoltre la story-line di chi vorrebbe il lei/lui un talento nascosto. Nella serie questo viene parzialmente celato, rinviando quindi a una decisiva sbocciatura nella seconda stagione. Sicuramente la sua story-line troverà maggiore visibilità, meritata, data la sua goliardica spiritosaggine.
In pellicola invece Barry, insieme alla sua band, inscena il suo tanto professato esordio agli occhi increduli di Rob con questa divertentissima performance sulle note di Let’s Get it On di Marvin Gaye.
Punteggio finale: a malincuore per un Jack Black in gran forma devo ammettere che la serie aveva modo di approfondire meglio gli aspetti caratteriali dei personaggi e la loro conseguente amicizia.
Le storie delle ex
Le ex o, come scritto nel libro le “cinque più memorabili fregature di tutti i tempi”, aprono il film e pongono subito lo sguardo su quanto Rob sia letteralmente frustato. Da questa classifica si dipanano poi le varie relazioni che lo hanno portato a fidanzarsi e poi lasciarsi con Laura. Nell’ultimo High Fidelity tutto segue le medesime dinamiche dedicandogli però meno tempo, focalizzandosi principalmente su Mc. Questo fa sì che i soggetti della serie diventino quasi dei riempitivi e monodimensionali. Inoltre le ex storiche del personaggio interpretato da Cusack portano spesso a piacevoli siparietti che ben si scontrano con la faccia da eterno Blue Monday del protagonista.
Nota a latere: carina l’idea di dedicare una puntata sulle cinque fregature di Simon che paradossalmente destano più di un sorriso nel veder riproporre per ben cinque (!) volte lo stesso identico ex.
Punteggio finale: il film stravince, se non anche solo per aver Bruce Springsteen come guida spirituale.
Medium
Il libro ha una tale potenza che potrebbe essere girato e rigirato, martoriato e stuprato ma qualcosa di buono lo si caverebbe sempre, dopo venticinque anni si può altresì parlare di brand bell’e fatto, visti i valevoli proseliti.
L’idea della chiacchierata con sé stesso diventa in entrambi i casi una rottura della quarta parete, che risulta un’idea vincente nel metabolizzare le riflessioni del personaggio da parte dello spettatore. Forse l’unico contro di tale scelta è quello di non accompagnare a tali parole delle immagini che potessero incorniciare il pensiero di cui si fanno portatori i due Rob. Facendo così, l’iniziale, piacevole curiosità diventa come quei film che fanno parlare i propri attori con pensieri interiori che alla lunga stancano. Un uso più intelligente in sede di regia e montaggio avrebbe potuto portare a qualche trovata spassosa che non avrebbe stonato in questa commedia dolce-amara.
Punteggio finale: o sei Kevin Spacey e impersonifichi un malvagio presidente alla Casa Bianca oppure risulta difficile riuscire a sostenere tale peso. Comunque, a parte questa critica da cinepatico, bisogna dare la vittoria alla serie per l’indubbia possibilità di allargare a piacimento le story-line di personaggi nemmeno presenti nel libro (vedi Clyde o Liam).
Nerdaggine
Non parlo di citazionismo che naturalmente farebbe propendere verso una vittoria al High Fidelity televisivo dato l’enorme debito rivolto non a una fonte, bensì a due. Inoltre il film negli anni ha costruito una gremita fetta di appassionati da renderlo subitamente un cult. E cosa si fa con i cult? Li si fagocita, li si digerisce e poi si decide come lodare la laida scorpacciata.
Per nerdaggine parlo di fervente fanatismo. Chi è appassionato di musica stampata su un avulso supporto vinilico è innamorato del feticcio, non solo lo si colleziona, lo si ascolta o lo si suona, ma lo si cataloga prima per genere, poi per artista, per propri collegamenti autobiografici, per significati concettuali e se si vuole fare il figo anche per colore. Finendo per non trovare mai il vinile al suo posto e quindi via all’ennesimo inventario.
Nella serie manca questa magica malattia.
Capitolo a parte sono anche i discorsi fra i tre amici. Nel progetto di Hulu si fanno i nomi giusti, si chiama a rapporto l’intero olimpo della musica ma non si giustifica mai a dovere il loro appello. Le incomprensioni non sono mai così marcate come nel film. Ad esempio il vulcanico Barry aggredisce verbalmente Dick quando ascolta i Belle and Sebastian oppure accusa Rob di non essere un vero appassionato per le sue scontate scelte sulla Top 5 dei primi brani degli Lp.
Il lato snob dei primi si scontra con i geek dei secondi. Nel film, i protagonisti difendono a spada tratta i propri gusti e fanno tifo incondizionato per questi, odiando tutto ciò che non ne fa parte. Nell’ultimo High Fidelity invece si apprezzano anche aspetti velati come l’orchestrazione di archi eseguita da Quincy Jones in The Wall di Michael Jackson e qualora ci fossero dei diverbi non si accusa ma si argomenta, si parla, si parla e si parla ancora.
Punteggio finale: pur sentendomi un po’ più Geek, amo la strafottenza Snob del film.
Musica
In tutto questo universo profondamente instabile la via salvifica si tramuta in musica. Ed è qui che avviene la resa dei conti. In un racconto del genere non possiamo solo pensare che la musica sia solo un pretesto per donare profondità caratteriale, sfondo narrativo o mero spunto citazionistico.
La musica è sempre vicina ai nostri personaggi, non come semplice accompagnamento musicale o come mezzo extra-diegetico ma quasi come un attore in carne ossa. A volte viene ascoltato in cuffia, spesso inserito a scopi didascalici oppure come espediente di avvicinamento o scontro. Fatto sta che la musica non viene giustapposta ma viene eretta a impalcatura su cui tutto poggia.
Eppure si nota subito quanto, ed è giusto che sia così, anche questo mezzo debba adeguarsi ai tempi. Il supporto fisico nel libro e quindi nel film hanno lasciato la staffetta a una ubiqua musica liquida. I personaggi di Hulu non pensano più a stilare classifiche prendendo materialmente in mano un vinile o un cd, non lanciano audiocassette qualora disdegnassero la musica proposta da un collega o non associano l’acquisto di un vinile a una ricorrenza o periodo storico in particolare. Tutto questo però è perdonabile, sono passati 25 anni dal libro e due decadi dal film, non sarebbe stato possibile riproporre lo stesso quid senza sembrare un dinosauro in via d’estinzione. Eppure non posso rimuovere dal peccato una cosa: la perdita di un certo tipo di linguaggio. Attraverso la musica i personaggi possono liberarsi dalle loro corazze, riescono a interagire e a esprimersi tra loro. Quasi fosse un linguaggio universale.
Di certo all’aggiornamento di High Fidelity non si può recriminare nulla, il mondo è cambiato e non si può ritrarlo con strumenti antiquati eppure, a mio modestissimo parere, seppur rimasto incollato alla serie, non mi sono sentito ammaliato dalla magia che vi era nella versione originale.
In ultimo, a ulteriore conferma, è curioso notare come lo staff, dietro la scelta musicale del film, abbia dovuto chiudersi in un studio ad ascoltare 2000 brani per poter selezionare solo 15 di questi. Il team dietro alla serie ha dovuto sì sudare per capire quale canzone potesse incastrarsi al meglio nelle diverse dinamiche narrative ma, nel momento in cui ha dovuto diffondere la colonna sonora, gli è bastato un semplice precaricamento su Spotify e il gioco è fatto.
15 brani del film contro i 128 della serie (!).
E tutto questo poi si ritrova inevitabilmente negli ascolti dei personaggi della serie. Molto più variegata, eterogenea e con diversi spunti di musica “dal basso” come l’hip hop o alcuni debiti terzomondisti.
Questo grazie specialmente al contributo di Questlove dei mitici The Roots.
Punteggio finale: la pregevole selezione della serie non riesce a scacciar via il disincanto dell’originale.
Non vedo l’ora di vedere la seconda stagione. Di certo la serie, potendosi svincolare dal fardello dell’eterno confronto, saprà guadagnarci in originalità.
Ora sono stanco, fatevi voi la somma dei punteggi e scoprite chi ha vinto in questa personale battaglia di impressioni.
Nel caso siate arrivati fino alla fine ma inspiegabilmente non abbiate ancora visto High Fidelity ecco a voi il trailer qui sotto.
https://www.youtube.com/watch?v=r5bkbfdVzbI
A mia discolpa: nei punteggi finali ho preferito comparare esclusivamente i due prodotti visivi lasciando il libro fuori concorso. Non per una questione preferenziale ma perché mi sembrava più logico. Entrambe le proposte audiovisive, seppur giocando con dinamiche diverse, avevano a disposizione i medesimi mezzi e quindi le stesse armi per un duello alla pari.
Bon vivant escapista. Commendevole fricandó di utopie. Indole appocundriaca. Loggionista alticcio.