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Il Pop in Giappone è una cosa seria

Il Pop in Giappone è una cosa seria.

Lo so. Sembra strano ma cosa ci può essere di più contraddittorio e al contempo accessibile che la popular music? Dopotutto, è proprio il suo eterno ed inseparabile bisogno di scriverne, parlarne e discuterne, che l’ha resa così popolare e incongruente. E quale paese vi viene in mente quando si parla di contrasti in continuo mutamento? Il Giappone naturalmente.

Quindi se la somma è il risultato di un’addizione, allora  aritmeticamente parlando otterremo:
Pop + Giappone = Pop migliore del mondo.

Ed eccoci quindi ritornati all’inizio.

Ho già ampiamente accennato di come oggigiorno sia inutile ed oltremodo fuorviante etichettare un genere; soprattutto in tempi in cui la musica leggera (così la chiamavano in Italia agli albori dell’industria musicale) naviga in un mondo sempre più globalizzato.

La molteplicità di proposte contemporanee ha fatto sì che, in taluni casi, si sia giunti attraverso una rivolta positiva verso quel livellamento che ha attanagliato il Pop per tanti anni.

Pur restando una progettualità piuttosto lineare e un vocazione catchy, in alcuni gruppi si notano diverse contaminazioni che sollecitano anche l’orecchio più ritroso. Di seguito ne proporrò alcuni che conoscevo più o meno da tempo, ma che data la permanenza in Giappone, mi sembrava doveroso citarli per sentirmi un po’ più in the mood.

Gesu No Kiwami Otome

Se vogliamo partire dalla situazione odierna offertaci dal Giappone non possiamo non partire dal gruppo di Enon Kawatani.
Enon, già leader di un altro gruppo molto noto in questa parte dell’emisfero come Indigo la End, è un impeto creativo irrefrenabile; difatti si alterna tra un progetto e l’altro con estrema disinvoltura e innata prolificità.

Ascoltando superficialmente la “Ragazza all’Altezza della Maleducazione”, così la traduzione letterale del nome della band, si potrebbe essere indotti a pensare che si stia ascoltando un semplice J-Pop, che segue una meccanica chirurgica e studiata a tal punto da sembrare fin troppo ragionata e quindi appetibile al grande pubblico.

Questo secondo me, è il loro più grande pregio: riuscire a fornire una tale mole di input come synth impazziti, cori cantilenanti, riff pianistici in loop, alterazioni jazz e slappate funk risultando comunque estremamente accessibili; è una qualità rara!

La prova si ha ascoltando semplicemente gli album in sequenza di uscita, infatti il loro modo di comporre non è solo cambiato in virtù della logica crescita professionale, ma si è espanso agglomerando tutto ciò che alle loro orecchie poteva sembrare naturale suonare. In pochi anni si è sempre giocato al rialzo, proponendo una miscela di funambolici virtuosismi prog, indole indie, basi vellutate di piano bar e piccoli inserti di chitarre cristalline il giusto.

Ascoltateli e ditemi se in Italia negli anni dieci ci sono gruppi che possono eguagliare tale estrosità, pur raggiungendo la vetta della classifica e piazzando quattro singoli in Top 10 con il loro secondo album Ryousebai.

Suiyoubi No Campanella

Ok. Cotanta ibridazione forse oggigiorno è ravvisabile in tutto il mondo, ma allora forse questo ragionamento potrebbe far pensare che i generi autoctoni come j-pop o lo shibuya-key, si siano ormai introiettati al music business occidentale.

Niente di più sbagliato se si rivolge lo sguardo, o meglio le orecchie ai Wednesday Campanella (cercateli così sul web, risulterà più facile…).
Loro sono tra i sovvertitori del linguaggio contemporaneo del japanese pop, negli ultimi anni hanno rimpastato qualsiasi input sonoro senza alcuna remora contenutistica, dal breakbeat alla dancehall, ambient sofisticamente arty (questo sì, profondamente e spiritualmente japan made) e tropical; e lo hanno fatto senza mai guardarsi indietro!

Certo è, che il terzetto capitanato da KOM_1 ci sa fare e sono ben lungi dal nasconderlo. Anzi, sin da subito il gruppo venne adocchiato, senza metter becco in sede compositiva, da nientepopodimeno che la major Warner, lodevole di aver supportato le suggestioni spiazzanti del gruppo.

Le pause melodiche che sempre più sostituiscono le trovate pirotecniche del passato e lo sconfinamento verso un sensoriale folk, stanno ben a dimostrare come negli ultimi tempi la band abbia ancora tanto da offrire. 

Suchmos

Sogno o son desto?

Jay Kay e i suoi Jamiroquai ritornano agli albori dell’acid jazz, con tutto l’arsenale di bassi grassissimi, scratch senza ritegno, jangle chitarristici di contorno e andamento jazz-funk.

Ok.

Questa descrizione è riferita solo alla prima traccia del loro penultimo album. Nell’album, infatti, c’è molto di più. Altrimenti, non avrebbero mai raggiunto la seconda posizione nel Billboard Japan, bissando poi con l’altrettanto ottimo lavoro del seguente album: The Anymal.

Già nel prosieguo si passa ad uno space-rock serratissimo, un soul bianco eighties e persino ad un sinuoso raga puntellato da un turntablism old school.

Un Ep – parliamo di tutto questo e ben altro, in poco meno di 40 minuti – facendo di questo disco una session ludica per il sestetto della prefettura di Kanagawa.

Cero

Qual è la differenza tra un cinese e un giapponese?

Vi giuro, non è né un colmo e nemmeno una barzelletta, quelle le lascio al ben più competente e conterraneo Silvio.

I cinesi emulano, i giapponesi invece rielaborano.

Questa affermazione può sembrare un po’ tagliata con l’accetta, e lo è, ma rende bene l’idea di come, almeno nell’ultimo mezzo secolo il popolo giapponese abbia preso solo il meglio dalla cultura occidentale amalgamandolo con il loro congenito senso di perfezionismo. E la musica non fa eccezione, si pensi al tango, al folk appalachiano, al jazz e al J-Rock e altri mille generi che vennero acquisiti dopo gli anni cinquanta.

Tra i migliori esponenti di questo pastiche di suggestioni, ovviamente trasposte ad un taglio più affine agli ascoltatori moderni ci sono i Cero. Ed eccoci nel 2018 ad ascoltare exotica,calypso, soukous, r&b e nu-jazz, aggraziato da coretti mai banali, che operano sottotraccia come un pointillisme, funzionale al cospicuo numero di tracce, ma anche indipendente ai pezzi stessi.

Qui parliamo di un trio che forse è ancora “troppo” indie per ambire alla vetta delle classifiche nazionali, ma un mix-and-match armonico e poliritmico nel medesimo album porta a credere che questi ragazzi possano farsi valere anche al di fuori del territorio nipponico.

Sakanaction

Ad esser sincero, questi ultimi non li conoscevo prima del loro ultimo album, ma ne sono stato letteralmente rapito dopo aver visionato alcuni loro video su YouTube.

A loro il pregio di catapultarti sin dalla prima nota in un’atmosfera estiva, solare, colorata e felice. Riescono nella non semplice missione di condensare ritmi sempre ispirati con una naturalezza disarmante. Qui parliamo di una tavolozza variopinta quanto quella dei Gesu, ma mantenendo una formula sempre riconoscibile.

L’ultimo album, 834.194 ad oggi può essere preso come compendio del Pop giapponese, un miscuglio di generi che con perizia strumentale ti si appiccicano addosso senza scrollarsi per giorni e giorni.
Il primo disco – ebbene sì, stiamo parlando di un doppio album – sembra quasi un greatest hits della band per quanto alta sia l’intensità; bassi tellurici si fondono ad una voce magnetica, l’electropop adrenalinico sfonda il dancefloor ed entra in heavy rotation con un fragore senza precedenti.
Il secondo disco invece è meno impattante del primo, sembra quasi che dopo tanto eccitamento si sia voluto decelerare verso una forma di indie ballad e ambient soffusa.

Io, come avete potuto capire, adoro tutti questi gruppi a loro modo.
Quindi, dinanzi a questo frangiflutti di consigli, spero che nessuno di voi si sia spaventato; il mio è solo un modo per istigarvi a scoprire l’altra faccia del Pop.

Sayonara.

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