“Basta seguire la strada e prima o poi si fa il giro del mondo. Non può finire in nessun altro posto, no?”
Una scrittura in fuga, le dita battono serrate sui tasti, una tazza di caffè e l’immancabile benzedrina al suo fianco.
La musica frenetica e convulsa del bop accompagnava il suo slancio vitale senza tregua. Quel modo di scrivere che con le parole aveva poco a che fare, ma seguiva regole tutte sue.
Forse la parola regola non è proprio la più congeniale se parliamo di un gigante della narrativa americana.
Jack Kerouac era tutto fuorché una persona ligia e devota al perbenismo imperante del bigotto USA. Era un anticonformista che scappava non solo dalla noia che lo circondava ma, forse, dalla stessa inquietudine che lo attanagliava dall’interno.
Un hipster anti-litteram che si rintanava negli oscuri club jazz, unico rifugio psicologico che lo strappava dagli angoli on the road, per ascoltare la musica che più amava.
Kerouac era letteralmente rapito dai quei musicisti neri che tanto ammirava, grondanti di sudore, che si dimenavano sul palco sfogando i loro istinti primordiali; per avvicinarsi poi a quell’indomito, selvaggio spirito che lo stesso scrittore serbava dentro.
Il capostipite delle Beat generation viene ricordato tutt’oggi per le sue battaglie sociali contro l’allora guerra in Vietnam, per le vite ritratte della gioventù bruciata scalappiata sulle strade polverose dell’America più recondita; ma soprattutto, ed è pleonastico ribadirlo, per il il suo modo di scrivere.
Il ritmo si poteva cogliere tra le righe; se si leggono a voce alta, i suoi versi richiamano alla memoria un sax che sferraglia suoni metallici in lontananza, la tromba che traduce l’amarezza insita nel suo essere, le percussioni che innestano pazze valvole di sfogo, compiendosi in una vita dissolutoria.
Non per niente considerava se stesso come: “un poeta jazz”.
Per fortuna miei cari, Jack Kerouac ha virato tutto questo amore, o sarebbe meglio dire affinità elettive verso la musica. Non semplicemente con le parole, con le quali è diventato poi giustamente famoso, ma anche con questo piccolo gioiello altresì valevole di lode ma sicuramente meno conosciuto.
Qui come unico strumento abbiamo solo un pianoforte, che al contrario del jazz più sfrenato dell’epoca, preferisce tessere trame sinuose, atte a creare il giusto foglio bianco sul quale vomitare parole senza sosta, avvicinando la metrica quasi ad un proto-rap onomatopeico più che al comune ed allora contemporaneo spoken word.
Bon vivant escapista. Commendevole fricandó di utopie. Indole appocundriaca. Loggionista alticcio.