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Kamahatma parla della sua indie-trap a Porta Palazzo

Con la bella stagione sta arrivando tanta nuova musica, e noi di RRM cerchiamo di stare sempre sul pezzo, per proporvi le realtà più interessanti del momento.

Oggi parliamo di e con Kamahatma, nome d’arte di Andrea Camatarri, cantante piemontese classe ’92 che sta conquistando con la sua musica introspettiva. Abbiamo approfittato dell’uscita di Porta Palazzo, il suo ultimo singolo, per conoscerlo un po’ meglio e fare due chiacchiere.

Partiamo dalla cosa più particolare: da dove arriva il tuo nome d’arte?

Era dalle medie che tutti mi chiamavano Kama, ma mi sembrava troppo semplice come nome d’arte. Allora, per assonanza e per creare un po’ di ‘fascino esotico’, ho deciso di unirlo con Mahatma, pensando a Gandhi. Da qui esce Kamahatma, ma ora fanno tutti un po’ a gara a storpiarlo, soprattutto la gente che si impicca a leggerlo su Instagram… (ride)

Siamo tutti in post-Covid: com’è la situazione da te adesso?

Qui da me, in provincia di Novara, stiamo ripartendo, anche se un grande movimento non c’è mai stato, in realtà. È una provincia un po’ particolare, con le risaie, le zanzare, il Ticino in cui fare il bagno: una realtà quasi rurale.

E quindi vai a Torino, perché “Porta Palazzo” è lì…

Esatto, anche se a Porta Palazzo ci sono stato veramente poco è bastato per farmi avere tutte le spiegazioni del caso. Un posto davvero particolare.

Diverse canzoni parlano della zona: mi viene sempre in mente quella di Willie Peyote. La tua “Porta Palazzo”, la tua visione di quel luogo, com’è?

La mia Porta Palazzo è esattamente come la canzone, un posto duro, ma che sa essere dolce. Ci sono capitato per caso la prima volta, in un weekend di inizio novembre dell’anno scorso (2019, ndr.), con grandi raccomandazioni da parte di chiunque sapesse fossi lì: sembrava di andare in guerra (ride)! Infatti, è una cosa che un pochino traspare dal testo, vedi quando parlo de “la puzza di cazzo”, che poi altro non è che l’odore del pesce del mercato, o quando menziono tutte le storie che si sentono su Porta Palazzo. Ma non era una cosa che mi buttava giù: prendi me, che vengo da una zona in cui siamo visti come i discendenti di Pablo Escobar. C’è un apparire, che poi non è detto che corrisponda a verità. La realtà dei fatti è spesso molto più complessa di ciò che appare, e Porta Palazzo, la mia, è soprattutto questa complessità, e il fascino che questa complessità genera. Porta Palazzo non è solo le sue ombre, ma anche storia, multiculturalità, tradizione…

Sei contento dei numeri del brano? Cosa pensi dell’andamento sulle piattaforme?

Sono molto contento. Siamo nei pressi dei diecimila, in qualcosa come due settimane ed è una bella crescita, soprattutto se pensi che non sono finito in nessuna playlist editoriale, rimanendo così ancora un progetto per chi ‘vuole seguirmi’, e infatti combacia col numero dei miei ascoltatori. A rendermi felice, inoltre, è il fatto che il posto da cui vengo è in dodicesima posizione negli stream, e succede che mi scriva tanta gente di Torino che mi ascolta e gli piace quello che faccio. La speranza, ovviamente, è che cresca ancora, ma da dove vengo era impensabile una storia così, all’inizio.

Come mai?

In realtà questo non è il primo progetto: la mia carriera ha visto già altri ’tentativi’, e non è per niente facile, visto che abbiamo molte meno possibilità di chi viene da grandi centri. Poi, è vero che ora che sono “grande” mi posso muovere più facilmente e si arriva davvero ovunque in breve tempo, ma io so che significa essere un sedicenne della zona, con la sua chitarra, costretto in cameretta, perché le possibilità erano davvero limitate. Io ho imparato a ventiquattro anni cosa fosse uno studio di registrazione, pur continuando a fare molto del lavoro in casa perché mi resta più comodo, ma c’è molto il modo di dire, fra noi della zona “eh, se fossi nato a *esempio* Milano…”

Ascoltandoti si ha l’impressione che l’attitudine cantautoriale si sposi con una scrittura più hip hop, una cosa che si nota molto ascoltando gli altri due brani, Non mi piaci e 123stella… ma se tu dovessi darti un’etichetta, dove ti porresti? E quali sono i tuoi riferimenti?

Sinceramente, a me piacerebbe essere definito “indie-trapper”, sparandola un po’ alta, soprattutto perché mi piace l’attitudine, la strategia comunicativa. Mi piace quel mood, quelle strutture di singoli spesso slegati dai dischi. Infatti, fosse per me, io non farei mai uscire dischi, solo singoli, anche molto diversi fra loro, così da non poter mai essere quello “di questo o quello”, ma poter cambiare sempre. Per quanto riguarda i miei riferimenti, lì andiamo decisamente sul classico, anche se non posso negare che tutta l’ondata trap post 2015 mi ha influenzato, come praticamente chiunque. È innegabile che quel mondo ha avuto un impatto clamoroso, e per ognuno è stato in modo diverso, ma tutto veniva da là. Io, ad esempio, ho preso come un miracolo il primo lavoro della Dark Polo Gang, e quel lavoro ha cambiato tutto, ma davvero, al punto che io, da autore, ho pensato “a questo punto non posso evitare di confrontarmi con una cosa così, tutto il linguaggio va adeguato”. Quindi sì, i due brani di cui parli possono davvero essere letti in quest’ottica. Anche se un altro che ho ascoltato tantissimo è stato Ivan Graziani, che amo, per il modo che ha avuto di vivere la musica, in un modo tutto suo, con una vocalità così particolare…

Prima dicevi che il tuo percorso artistico è iniziato a sedici anni.

In realtà molto prima. Per imitare mio fratello maggiore, a sette anni ho iniziato a suonare il pianoforte, ma mi ha annoiato quasi subito e quindi mi sono buttato sul basso elettrico, che suono da quando ho nove anni. Col tempo sono passato alla chitarra, da autodidatta, anche perché suonare tutto il tempo il basso da solo è un po’ pesante. Con la chitarra ho cominciato a comporre le prime bruttissime canzoni, ma il progetto Kamahatma è nato quando ho trovato lavoro a Novara. Faccio il manutentore in un’azienda chimica, una professione abbastanza monotona, devo dire, e per evitare di entrare nel loop ho deciso di ricavarmi una mia nicchia, ovvero di dedicarmi di nuovo alla musica, come qualcosa che mi può portare lontano, a fine giornata. Mai avrei pensato di arrivare così lontano.

Kamahatma ha già visto i palchi?

Sì, negli house concert, ma ora, come tutto, sono inattuabili, anche se li adoro. Come progetto avrei in mente una cosa itinerante del genere, visto che al momento ho degli ascoltatori in giro per l’Italia ma non grandissimi numeri. Mi piacerebbe dire “Ok, prendiamo la macchina, facciamo il giro delle città, suoniamo in piccoli posti in cui ti puoi godere la serata, qualche canzone, e poi si sta assieme”, più come un punto di incontro che un vero e proprio tour. Una cosa intima.

Che stai ascoltando in questo periodo?

I Pavement. In italiano un sacco di rap e di cose che vengono dalla trap, ma sono più strumentali. In più lo-fi, lo-fi chill, quelle dirette di ventiquattro ore di YouTube per capirsi.

Hai parlato di rap e trap strumentale: che ne pensi di Frenetik e Orang3?

Sono davvero molto bravi. Non ho approfondito molto, ma conosco la loro figura e sono davvero forti. Da quell’ambiente, Asian Fake, un altro che cito è Venerus: fortissimo, l’ho conosciuto al MiAMi e me ne sono innamorato. Con tutta la sua orchestra e la sua classe sembrava di essere a un concerto di Bon Iver. Poi mi piace il suo rapporto col rap, il fatto che lui sia un’istituzione nella scena anche se, effettivamente, non fa quelle cose. Di quel mondo a metà fra pop e rap mi piacciono molto anche gli Psicologi, che conoscevo però già da Souncloud.

Stai molto su Souncloud?

Ora non più, ma prima molto. Ti potrei raccontare della mia “fitta corrispondenza” con un Lil Peep in erba, nel 2013, quando gli spedivo tutto il nostro amore dall’Italia. La piattaforma mi piace perché ti porta a conoscere molta roba nuova, ma soprattutto per la totale libertà, in tutti i sensi. È molto più pulita poi, senza tutti gli hater che potresti trovare su YouTube…

Ti piace davvero molto la trap…

È impossibile restarne fuori perché non è solo musica: è vestiario, moda, frasi. C’è gente che parla solo per citazioni prese dalla trap, e o le conosci o sei fuori. E poi ultimamente l’industria discografica sta spingendo tantissimo questi progetti, quindi almeno cinque volte al giorno ti uscirà la sponsorizzata di qualche trapper, e invece paradossalmente ci sono sempre meno realtà cantautoriali oppure vengono fuori con più difficoltà perché non è, forse, quello che cerca la maggior parte della gente però dipende sempre a chi ti vuoi rivolgere, secondo me ci sta anche che alcune canzoni, qualche genere, sia destinato a un pubblico diverso.

Per questa domanda diventi il maggior esperto di musica al mondo: cosa manca in Italia?

Il punk, qualcosa per gli animi scatenati. Magari un prodotto che sia la versione nostrana degli Idles, che scrivono e suonano bene.

“Musica per animi scatenati”: hai visto che si è chiusa l’avventura de Il Teatro degli Orrori?

Sì, anche se non li seguivo molto mi è dispiaciuto, più per la modalità in cui è successo: un post, due parole, qualche articolo, un po’ come lasciarsi come un messaggio. Ha lasciato un brutto sapore in bocca. Va rivisto questo fatto della comunicazione in realtà, perché io stesso ho preso la notizia un po’ alla leggera, soprattutto perché sono informazioni che ormai volano sui social e basta. Un po’ strana.

Chiudiamo: da dove arriva l’ispirazione?

Io ho questo rapporto con la chitarra a dodici corde che è veramente intimo, ho deciso arbitrariamente poco più di un anno fa di portarmela sempre in giro, ovunque e in qualsiasi contesto, e infatti prima di Kamahatma io ero quello con la chitarra, facevo cose improvvisate, un po’ più comiche, un po’ serie, poi qualche cover, e lei è rimasta con me. Così la sera torno a casa da lavoro, mi metto sul letto e comincio a giocare coi giri di accordi, dal pop fino a salire e scendere, finché la melodia non mi entra in testa. Poi comincio a improvvisare al microfono, e vedo cosa succede. La cosa bella di Porta Palazzo è che è nata così, e che la traccia vocale che sentite è la prima improvvisata che ho registrato in camera mia. Volevo farla meglio in studio, ma si sarebbe perso il senso, così è come deve essere: intima.

Ecco alcuni link non perdere neanche una notizia su Kamahatma:

Facebook: https://www.facebook.com/pg/kamahatma/photos/?ref=page_internal

Instagram: https://www.instagram.com/kamahatma/?hl=it

Spotify: https://open.spotify.com/artist/34V6owy9iDds6DHgoqjH5U?si=YkJ4kg_ER4yTzIOf_arRaw 

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