Il caffè ha già sortito il suo effetto e i nostri sono pronti a ripartire; giusto una breve capatina in bagno e poi ci si rimette alla guida.
Una volta arrivati all’automobile il padre nota come il figlio più piccolo, rimasto lì a scancherare con la radio, abbia deciso di cambiare stazione alla ricerca di una canzone a lui congeniale. Dagli altoparlanti incassati nelle portiere aperte fuoriescono le note di una melodia brillante, un cromatico taglia-e-incolla, una traccia a dir poco chirurgica ma che magicamente richiamava ciclopiche onde e quella patina appiccicaticcia e bellissima dei biondi surfisti.
Il ragazzo rimane stupito quando viene a sapere dallo stesso conduttore radiofonico che il brano fu partorito da quei cinque bellocci che erano “sulla cresta dell’onda” e che erano in grado di rivaleggiare con i popodimeno dei Fab Four, ma che dopo quel botto seguì un’implosione così dissolutoria da scagliare in mille pezzi il loro lascito, mai più raccolto da chicchessia proselite californiano.
Tutti in doveroso silenzio ascoltano quel pezzo, ma dopo pochi secondi il figlio mezzano decide di spezzare quel, pur giustificato, apprezzamento verso quella venerata maestra per attaccare il jack al suo cellulare e sparare un mefistofelico sibilo di sonagli che danno avvio ad un suono claudicante, alticcio, ma sempre pronto a scatti inconsueti, privi di logica, isterici.
“Questa è la california che piace a me, quella che si discosta dai palmizi ritti spettatori di quella passerella testosteronica di pettorali glabri, seni polimerici, gambe toniche trasportate da coloratissimi roller per prediligere un incedere caustico e selvaggio”.
“Si, hai pienamente ragione” soggiunge il fratello maggiore, “spesso l’America viene vista sempre come una questione bipartitica, ma se abbandoniamo le coste che la separano dai due oceani e ci dirigiamo verso la provincia, o meglio verso quella landa sonnacchiosa che è il Sud, scoviamo vere e proprie perle”.
Una nostalgia canaglia diventa protagonista di storie di febbrile malinconia, erose da un vento sempre più soffocante, questo è il deserto, manto polveroso che ti getta in faccia nient’altro che sabbia, ti disorienta eppure reca sollievo, elimina dal mirino l’obiettivo, il fine, l’orizzonte.
Quella sfera rovente quasi ti eccita a tal punto da sospingerti verso un impossibile moto perpetuo, ti trovi madido a volteggiare come se anche quel niente avesse tutto.
“Uh mama” intercede il padre, “ma cos’è questo spleen esistenzialista!”.
“Ad ascoltare te sembra che possano ruzzolare solo dei buffi rotolacampo, io, invece, me la immagino nel modo più stereotipato possibile, ma vuoi metterne il fascino!”.
“Personaggi esili, spigolosi, con enormi cappelli bianchi calcati sulla nuca, una pistola appollaiata in una fondina tenuta sempre aperta e… una chitarra hawaiana legata alle spalle.”
Di getto il vecchio si dimena, limitato dalla cintura troppo stretta su una pancia tutto fuorché in forma, per cercare un qualcosa sepolto nei vani della portiera.
Dopo pochi istanti riesce a pescare un cd, che nessuno aveva mai notato in quella macchina: era un greatest hits di un fattino uscito da una delle bettole che offrivano risse e bevute a buon mercato.
“Ma da quando hai preso ad ascoltare il country?” esclama la donna al suo fianco.
“A dir il vero non so nemmeno io cosa ci fa qui questo dischetto, penso di averlo ereditato dal vecchio proprietario della macchina; eppure ci sono in qualche modo affezionato”.
Lo inserisce e subito prende a ciondolare il capo, guardandosi allo specchietto e facendo finta di tirarsi su il cravattino di cuoio, emulando gli speroni di un paio di stivali da monta ticchettando la fede contro il pomello del cambio.
“Per me invece tutto questo trambusto per eleggere il meglio della musica americana non può prescindere da un’estetica tanto cara anche a noi europei, perché diciamocelo, belli i rodei, desertico il deserto, mastodontiche le onde, ma vuoi mettere l’impazienza di urlare a squarciagola quattro-parole-quattro e poi scalappiare due batterie, schitarrate slide e tutto l’arsenale che il rock può fornire?” esclama la moglie. “E poi immagina tutto questo come sottofondo mentre addenti un bel hamburger, doppio come le percussioni, in una steakhouse di periferia”.
“Hai ragione cara, ogni volta che andiamo in un locale di quel tipo non vorremmo mai uscirne, birra a fiotti, baffi lerci e piedi che non si vergognano di martellare sotto al tavolino cromato e agghindato con quella scacchiera biancorossa”.
Subito dopo la mamma chiede al figlio di mettere una traccia che richiamasse quel quadretto appena narrato: “Vai di macho southern rock, boogie frenetico e carica bluesy al vetriolo!”.
Fuori intanto ci troviamo tra l’aretino e il senese, al secondogenito ritorna in mente una delle ultime vacanze fatte con i genitori appena diciassettenne nei dintorni del lago trasimeno.
Era quella fase della vita in cui ci si fissava con il cinema tarantiniano, e quindi di rimando a tutto quel filone blaxploitation, b movie, splatter gratuito ed ingiustificato, accompagnamenti di morriconiana memoria e soprattutto quel avvalersi sempre di brani apparentemente irrazionali, ma che poi prendevi a fischiettare alla Alessandro Alessandroni.
Proprio durante quella vacanza pasquale, al cinema passava il seguito di Kill Bill e mai come in quel periodo egli iniziò ad ascoltare la band del fido compare Rodriguez, che nel secondo della sposa faceva anche consulente della stessa soundtrack.
Immerso in quei pensieri, prende le cuffie e si mette ad ascoltare un po’ di spaghetti western in salsa messicana.
“Mi piacerebbe molto andare in Messico” pensa ad alta voce.
La donna di fronte esclama di getto:
“Non si può parlare di un paese e di un popolo senza il suo canto simbolo; e non si può di certo scomodare il simbolo senza citare la chamana che rese questo folk secolare, orfano di un autore certo, un trattato di musica immortale”.
Un delirium tremens che segue le solite sbronze sul ciglio di una qualunque pulqueria di quartiere. Sbroglia di dosso quell’animo folkloristico messicano coprendolo di un manto fortemente melodrammatico, rassegnata ma sempre pronta a randagiare con quel poncho rosso tanto lontano dai tacchi e gonne che erano richiesti ad una donna per bene.
Darsi ai bagordi era l’unico modo per dimenticare un’infanzia problematica e soprattutto l’essere lesbica in un periodo storico non certo propenso ad accettare simili devianze.
Si fece portatrice del filone ranchero, cantava per i divi di Hollywood e ne rubava le donne, divenne amica, amante, confidente della grande Frida, si annidò per anni su quella rondine di ciglia che portava tanto fiera, si bevve tutta la tequila che quello strabiliante paese poteva offrire e spesso spariva per interi anni senza lasciare traccia di sé.
“Tutte queste chiacchere mi hanno messo fame” dice il padre.
Il figlio più grande, mai come in quel momento, condivideva pienamente lo stesso pensiero. “Perchè non ci fermiamo appena possibile?” propone.
L’acquolina in bocca oliava le fauci e già tutti pregustavano il classico pranzo al sacco: panini farciti con tutto ciò che poteva offrire la dispensa domestica, dopotutto si sà, bisogna svuotare il frigo prima di lasciare casa per andare in vacanza.
Il padre già sognava la sua ciabatta lunga almeno mezzo metro ripieno di ogni ben di Dio: sottoli preparati dalla moglie, il formaggio che sudava date le oramai 6 ore di viaggio e, ovviamente, il salame “nostrano”, che ogni anno veniva portato su da qualche parente e accuratamente lasciato appeso nel buio del garage.
Non riesce più a resistere, sente l’odore dei panini che sale da dietro il portabagagli; per fortuna sopraggiunge un cartello indicante un area di servizio posta a poche centinaia di metri.
A mia discolpa: come avrete notato, per questa seconda tappa ho volutamente preso le distanze dai paesi trattati nell’articolo precedente; qui, pur mantenendo un orientamento sbracato e di facile ascolto, ci siamo spostati oltreoceano riversando nel calderone iconoclastici riff proto-punk, coretti surf, aggraziati raucismi country e ancora motivetti mariachi, avulsi silenzi di frontiera e tutto ciò che volente o nolente sfonda il muro tra Messico e Usa.
Qui la playlist Spotify che accompagna l’articolo.

Bon vivant escapista. Commendevole fricandó di utopie. Indole appocundriaca. Loggionista alticcio.