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Top 5 album del 2019

Continua la nostra scalata al ventiventi con il recap dell’anno che è stato, guidati da quella tipica nostalgia delle cose ormai lontane. Questa settimana tocca ai big ones, le pubblicazioni più fighe degli ultimi 12 mesi: ecco i migliori album del 2019.

5 – Kanye West, Jesus is King

La lista dei migliori album del 2019 non poteva non includere l’enigmatico Kanye, prodigio dell’egocentrismo. Il superuomo che se si mettesse una lampadina nel culo riuscirebbe ad illuminare le strade della sua natia Atlanta. Messia? Chirichetto? Predicatore? Davvero non si è sicuri sul dove fare cadere la spunta verde quando si parla della sua ultima fatica, quel Jesus is King a metà tra sermone e ascesa personale. Una produzione impegnata, introspettiva, provocatoria e allo stesso tempo divertente. L’album infatti strizza l’occhio a quel gospel che tanto bene si sposa con le tematiche e le liriche proposte dall’artista, in un blend di generi tutti i gusti+1, tra rap, soul e quell’hip hop filotrappiano.

La prima traccia Every Hour nasce, cresce e corre direttamente dalla zona cori di una chiesa afroamericana di periferia, in un tripudio gospel tanto anacronistico quanto stupefacente. Kanye tesse le trame della sua predica professando la sua nuova identità di messaggero del Signore con Follow God prima e Water poi, quest’ultima che con la collaborazione di Ant Clemons quasi si tramuta in preghiera in occasione del secondo verso (sì, è questo il fatidico momento di alzarsi dalle panche che da piccolino soffrivi durante la messa); passando poi per la telegrafica Closed on Sunday che noi del team abbiamo già trattato qui, chicca e leva dell’intero album. Il controverso Kanye si immola contro l’effimero consumismo social che ironicamente è fondamenta, primo piano e vertice dell’impero su cui la moglie Kim Kardashian ha costruito il suo successo, rimettendosi alla parola del Signore con un ruolo à la West: molto più improbabile braccio destro che umile pastore.

Top tracks: Closed on Sunday, Everything We Need

4 – Battles, Juice B Crypts

A quattro anni dalla loro ultima fatica, i Battles pubblicano una poderosa collezione di tracce per la maggior parte strumentali, un tripudio di math rock dalle venature elettroniche e dall’asfissiante frenesia. Difficile stargli dietro, vero, ma una volta preso il ritmo anche il più furioso dei tori può essere cavalcato e domato come un docile pony.

Pony? Math rock? GG, ma che diavolo stai dicendo?

Avete ragione, ricominciamo da capo e non scordiamoci le buone maniere. Prima di tutto le presentazioni: i Battles, gruppo statunitense formatosi nel 2002 all’anagrafe, si presentano come il duo Williams&Stanier, fautori di un genere musicale mai sazio di innovazioni, tra rock sperimentale, ambigue strutture ritmiche ed effetti a pedale come se piovesse. Ciò che nasce da tutto questo è Juice B Crypts, album adrenalinico, giocoso e, nonostante le complessità tecniche, facilmente godibile.

L’opening track Ambulance scherza con la nostra nostalgia. Ad ogni suo play ci prende per il cu*o facendoci credere che il nostro Nokia3310 sia tornato dall’aldilà per tediarci con il suo catalogo di suonerie polifoniche, prima di sfociare in un’incalzante batteria che fa a schiaffi con l’isteria elettronica in sottofondo. La successiva A Loop So Nice… racchiude nel suo titolo tutto ciò che manca per imparare a conoscere i Battles, quella ricerca della ripetizione e del metodismo che rende ogni traccia un enigma di risolvere. Preziosi le collaborazioni con Jon Anderson, Shabazz Palaces e Sal Principato in occasione delle rispettive Sugar Foot, IZM  e Titanium 2 Step, che rendono più leggero l’ascolto dell’album grazie ai loro intermezzi vocali, perfetto cucchiaio di miele dopo l’amara medicina. Juice B Crypts è un po’ come giocare a nascondino: a metà tra la frustrazione di chi cerca e l’euforia di chi è nascosto.

Top Tracks: Fort Greene Park, Titanium 2 Step

3 – Tha Supreme, 23 6451

Piacevole sorpresa nel panorama musicale italiano, Tha Supreme ha già ricevuto numerose etichette nel corso della sua breve-brevissima carriera. L’enfant prodige  futuro del rap italiano ha conquistato pubblico e critica con il suo debut album 23 6451, una prima fatica che però non tradisce le sue esperienze da producer e beat maker. Davide Mattei, così all’anagrafe, costruisce sulla base di solide collaborazioni tra le quali Marracash, Fabri Fibra e Mahmood un album innovativo, fresco e d’impatto, con la forza roboante che solo un talentuoso 19enne potrebbe avere in corpo.

19 anni, per l’appunto, che vengono limpidamente rispecchiati nelle liriche a volte nosense e criptate della produzione (qualcuno ha per caso detto blun7 a swishland? Vero e proprio caso internazionale per la redazione RRM, leggere per credere) e dai beat a dir poco illuminanti; forse la cosa più notevole che Davide sfodera dal suo cilindro: la quasi fiabesca 2ollipop, i prepotenti drumbeat da gamer in 5olo ed una ricerca ossessiva dell’equilibrio tra autotune e trap. Le tematiche da millenial dell’album lasciano il tempo che trovano, ma le modalità enigmistiche in cui vengono apparecchiate rendono l’ascolto una sfida succulentissima. Un album che diverte, col latente rischio di mal di testa. Di sicuro uno dei migliori album del 2019.

Top tracks: blun7 a swishland, fuck 3x

2 – Fontaines D.C.,  Dogrel 

Che figata il post punk made in UK!

Non vi è alcuna risacca all’orizzonte per l’onda post punk degli ultimi anni. Un’alta marea iniziata pochi anni fa da gruppi come Shame e gli apprezzatissimi Idles che hanno donato aliti di vento alla vela di un genere musicale che a dir la verità si era tristemente arenato. Finiti tutti i riferimenti nautici del nostro brevissimo glossario, vi introduciamo i Fontaines D.C., nuovi portavoci di quella frustrazione proletaria e alienazione sociale figlia della Brexit. Sulla sbarra degli imputati la gentrificazione della loro Dublino e i repentini cambiamenti culturali ai danni del folklore della classe operaia, dalla quale tutti i membri della band arrivano.

Le differenze più grandi che si notano rispetto agli Idles quando si passano le due formazioni sotto la lente d’ingrandimento (a parte l’origine geografica non prettamente britannica), è sicuramente una ricerca melodica più attenta e pulita, un garage rock decisamente educato e non lasciato al caso. Ascoltare Too Real per credere, traccia che si erge su un delicato riff come incipit prima di cucirsi sulle grattate quasi psichedeliche dei versi. Il basso è prepotente protagonista invece della vulcanica Hurricane Laughter; senza dimenticare la performance del frontman Grian Chatten, in un impressionante dimostrazione di imperturbabile equilibrio vocale da singola frequenza. Le sue solo apparenti distaccate interpretazioni sono il vero collante tra tutte le tracce della raccolta. Quelle ed il suo accento incredibilmente irlandese. La catchy Liberty Belle a noi della redazione ci ricorda tanto i brani dei Vaccines che a chiudere gli occhi vai davvero in confusione. Fino alla chiosa Dublin City Sky, una malinconica ballata filastroccheggiante, in piena adesione col titolo scelto per l’album: dogrel significa infatti filastrocca, antico termine che inquadrava versi volgari o di scarsa qualità, ma per questo motivi vicini ai più. A quella working class cui i Fontaines D.C. danno parola e urla.

Top tracks: Sha Sha Sha, Boys in the Better Land

1 – Black Midi, Schlagenheim

Migliore album del 2019? Secondo la redazione RRM la medaglia più rara spetta al debut album Schlagenheim dei Black Midi. Irruente caos ordinato. Se dovessimo descrivere la band di Geordie Greep&Co con tre parole, noi azzarderemmo queste, consapevoli della loro intrinseca fallacia. Il progetto Black Midi (in riferimento ad un genere musicale nato in Giappone) nasce a Londra nel vicinissimo 2017 e porta con sé frenesia da post punk miscelata con melodie groovy tanto potenti quanto a tratti inaspettate. La raccolta è eterogenea, esagerata ma coesa ed il filo conduttore che lega le tracce si tende prepotentemente senza mai però rischiare di arrivare a rottura.

L’opening track 953 è puro punk metodico, irruente caos ordinato appunto, subito seguita dal gioiellino Speedway, un brano quasi funky, monito di quanto poco classificabili siano i Black Midi. A coronamento di una produzione davvero importante la notevole valorizzazione dell’interpretazione canora del frontman, asso nella manica che da brutto anatroccolo diventa bellissimo cigno. Restando però sostanzialmente un davvero brutto anatroccolo: calata in questa surreale dimensione caotica, la voce maniacale e a tratti burlesca di Greep, diventa grandioso timone per guidare la sua ciurma verso porti sicuri, donando alle tracce una gustosissima sensazione di imperfezione. Le vocals nel brano bmbmbm sembrano prenderti in giro per come le crederesti buttate lì, ma tutto quello che devi fare è abbandonare ogni tipo di limitante preconcetto e farti trasportare dalla spasmodica melodia, fino all’esplosione della batteria e la rottura delle corde, sicuramente il climax più potente dell’intero album.

Non lasciatevi spaventare. A volte la bellezza non si deve cogliere al primo impatto.

Top Tracks: ducter, bmbmbm

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