Qualcuno ha realmente capito dove vuole andare a parare Luke Temple?
Personalmente lo seguo dagli esordi con gli Here We Go Magic e la domanda mi è sempre ronzata per la testa. Già allora si travisava un gusto per l’eclettismo più sfrenato, eppure tutto era perfettamente confezionato in un’estetica electro acustica da fare invidia a molte altre band indie di ormai una decade fa. Questo lo fece balzare agli onori della critica, in un periodo dove forse, la competizione nell’arena indie non era poi così agguerrita.
Poi all’improvviso lo persi per un buon biennio, non so, ero entrato nella mia fase black.
Ero fissato con tutto quella mescolanza di nu-soul, early funk, italo disco, soul bianco che andava per la maggiore e mi persi senza ritegno alcuno un sacco di nuove uscite, tra cui il ritorno da solista di Luke Temple.
Stancatosi di operare in ditta con gli altri componenti della band succitata decise di fare da sé. Abbandonato qualsiasi rischio di essere incubato in un genere, inizia un’avventura rabdomantica che lo vede ficcare surplace su contro-sorpassi, rilanciando sempre con una qualsiasi idea che lo potesse imbrigliare in una pericolosa e claustrofobica comfort zone.
Reo di tale abbandono, e complice l’uscita dell’ultimo album ho ripreso ad ascoltarlo. Per colmare il gap ho anche deciso di inanellare alcuni brani che, in doveroso ordine cronologico, hanno destato in me particolare interesse.
Eccoci dunque a spulciare qualche brano tra la sua oramai collaudata “non-formula” sonora e abbandonarci alla piacevole irrequietezza del funambolico troubadour americano.
Gli inizi
Il primo EP, solo una manciata di brani suonati in uno stanzino newyorkese con un umile registratore quattro tracce, già mostra le prime avvisaglie di ragazzo talentuoso che lavora per sottrazione.
Una chitarra sporca il giusto, la cadenza alt-folk, un falsetto che ti entra in testa e quella circolarità donata da un fingerpicking arioso che gioca a fare il Nick Drake o un Tim Buckley non presi così male.
Tempo un anno ed ecco che quelle corde appena pizzicate fanno nuovamente capolino nel primo album solista. L’andamento è sempre intimista, sognatore e positivista. Esatto, qui il folk cantautorale è sublime, l’intento melodico è fragile e delicato. L’opposto di quello che offre il genere, solitamente malinconico, spesso sottomesso ad una solitudine così frustrante da risultare tanto fascinosa quanto straniante e letale. Niente Elliot Smith quindi, anche se in alcune canzoni la chitarra imbevuta di accordi in minore lo ricorda molto, niente Jeff Buckley e la sua tormentata voce da angelo, sebbene quel falsetto ogni tanto lo chiami in causa. Nemmeno Hank Williams o Roger Miller, troppo anacronistici e incoerenti con il suo trascorso esperienziale, ma a volte si sentono echi del sud che fanno pensare a quanto il Massachusetts (suo luogo di nascita) non sia poi così lontano.
Tutto sommato suona così mid tempo, senza picchi sensazionali, con una maglia sonora che mai realmente varia tra un brano all’altro ma ciò nonostante tutto è al posto giusto e funziona.
Sempre per Mill Pond, un biennio dopo, lo vediamo alzare ancora un po’ l’asticella. Il banjo entra saltellante su una deliziosa canzoncina dagli echi medievaleggianti, e subito il nuovo album sembra presagire un’evoluzione sulla sua indole compositiva. A mio avviso ancora non è avvenuto quel salto da promozione nel massimo campionato ma già si notano alcuni espedienti interessanti sulla modulazione della sua stessa voce come strumento o nella multidisciplinarietà di alcuni inserti elettronici e distorsioni estemporanee.



Facciamoci in tre
Appena oltrepassato la boa del primo lustro di carriera il mai domo Luke decide di allearsi con Michael Bloch e Peter Hale per iniziare a fare le cose sul serio.
Lo sbarco nel nuovo progetto è anche il pretesto per un trasloco in Western Vinyl e subito si denota qualcosa di nuovo all’orizzonte.
Spirali ellittiche si deformano in loop psichedelici, incursioni noisy non più solo celate ma messe in bella mostra, xylophoni piazzati tra il solito caro banjo e refoli di armonica a bocca, tutto quello che gli passava per la testa insomma.
L’andazzo è di quelli mantrici, senza perdersi però in scevri rimandi filosofici. Non si gioca a fare il George Harrison e nemmeno si vuole gareggiare con i contemporanei Bombay Bicycle Club e la loro paventata perfezione timbrica. Qui si è bombastici nell’essenza e spesso si sfocia in esperimenti sonori che ti attirano e poi ti mollano sul più bello, nella maniera più asintotica possibile.
Ormai alla mercè dei Here We Go Magic mi accingo ad ascoltare anche l’album dell’anno seguente. Il pirotecnico Luke Temple arruola altri due musicisti, Kristina Lieberson e Jen Turner, rispettivamente tastierista e bassista, e licenzia così il nuovo disco con l’ennesima etichetta (Secretly Canadian).
Pronti partenza e via, nuovo singolo e subito un successo inaspettato. Il suono si fa sempre più denso, ma al contempo calibrato, più chamber che sgraziato indie. Se prima si poteva sentire un qualche retaggio del menestrello Sufjan Steven, qui il rimando viene spiattellato bellamente sulla faccia di tutti.
Inevitabilmente il singolo non può avere un seguito e quindi si procede di frammenti nervosi, schizzi d’autore che partono dalla tavolozza del cantante (ricordiamo che i primi studi di Luke Temple si concentravano sulla pittura) per imbrattare una tela fatta di colori cangianti, amalgamati in maniera screziata e senza alcuna posa.
Tutto bello per carità, ma il desiderio di cantarsela, suonarsela in solitaria è troppo grande e quindi il nostro decide di prendere una pausa dal suo gruppo per tornare a scrivere quei bozzetti cantautorali a lui più coevi.
L’album a dire il vero risale a ben due anni prima, in concomitanza con l‘uscita del suo primo album con gli HWGM, ma il successo della critica lo costrinse a posticipare l’uscita per non creare una concorrenza ingiustificata in un mercato indie già abbastanza saturo.
La volontà di ritornare ad una forma meno ricca di dettagli – anche se dalle prime due tracce non si direbbe – è lampante, eppure la mano sapiente di Luke Temple riesce ad essere coerente con qualsiasi genere si prefissi di cantare. La sua voce a volte civettuola, singhiozzante e all’occorrenza pulviscolare sottolinea una certa predisposizione per una strana forma di art-country, ballate pizzicate sul filo delle corde, un pop multicolore e multietnico, più Simon che Garfunkel insomma.



La Maturità
La fase di crescita non si denota solo dagli anni passati in studio, dagli innumerevoli tour, dal seguito, dalla semplice consapevolezza che gli anni passano.
No, niente di tutto questo. Nel business musicale si esce dalla “bolla tardo-adolescenziale” quando si viene affiancati da un produttore con i contro attributi, una chioccia, uno che non le manda dire, uno che non ti fa mollare il microfono o uno strumento fino a quando non l’hai spremuto a dovere.
Nigel Godrich è tutto questo, ma anche molto altro. Quasi mi stanco a stilare cosa ha fatto quest’uomo negli ultimi 25 anni, quindi vi rimando a questa pagina, nel caso voleste capire chi vi è dietro ad alcuni dei più grandi artisti Rock degli ultimi anni.
Ma torniamo ai HWGM. Il delegare parte degli input artistici ad un’altra persona alla lunga può giovare, specialmente per un artista e di conseguenza un gruppo che assieme al successo ha sempre attirato critiche (impalpabili e secondarie si intende) sull’eccessiva omogeneità dei brani in scaletta. Infatti in A Different Ship il suono cambia, è meno monocorde, gli intarsi elettronici si fanno più massicci ma mai in disaccordo con la globalità dell’opera. Ed ecco che l’album si dipana in una voce lontana (chiamasi all’appello Thom Yorke), un tiro funky appena accennato e centinaia di altre sfumature per un album che li consacra definitivamente.
Nemmeno smette le vesti di band leader che subito decide di fare nuovamente un passo laterale.
Luke Temple si apparta in un cottage nell’inverno del 2013, decidendo di prendere al suo fianco Mike Johnson dei Dirty Projectors, e direi che subito si sente dove il disco vuole andare a parare. Il soul imperversa, le percussioni si fanno calde e a tratti tribali e si rispolvera con gusto anche alcune trovate synth anni ‘80.
L’amore per la black music è dichiarato, forse rimane un vezzo artistico, una lieve parentesi rispetto al passato. Il tocco garbato, gli ammiccanti giri di basso e la voce mai così suadente lo promuovono quantomeno a disco da gustarsi con braccio penzolante giulivo fuori dal finestrino, ubriacato da un sole seminatore di vangoghiana memoria.


Il definitivo (?) abbandono dal gruppo
Il ritorno con il bandmate Michael Bloch segue subito direttive nuove: concentrare quanti più riferimenti possibili, delineando un coacervo di elementi sonori candeggiati da una volontà decisamente arty.
Brian Eno, John Cage, Robert Wyatt sono i primi illustri nomi scomodati, ma la mente ingarbugliata dei HWGM procede caparbiamente con il motto “crepi l’avarizia”. Quindi giù con chitarrine country, riferimenti kraut, atteggiamenti glam, delizie soul ed intelligenti usi di marchingegni tecnologici.
La scorpacciata è stata forse eccessiva, fatto sta che dal 2015 Luke Temple ha intrapreso un percorso artistico in solo, senza ritornare annualmente al progetto di gruppo.
Proprio con il suo penultimo album ha deciso di ritornare ai primi passi, lo stile folk ridiventa predominante e mai come questa volta si laurea a grande cantore dei piccoli momenti di vita quotidiana. La voce si fa più monotonale, meno falsetti, meno orpelli e tanta sostanza. Il ragazzo si è fatto grande e smette i panni di artista schizofrenico.Tutto suona tradizionale ma non vetusto. É suonato oggi ma con un animo antico. Sembra tutto un anacronismo, naturalmente filtrato da una sensibilità sopra le righe; una pagina strappata dal proprio diario personale.


Both-And
Il liricismo dell’album passato è valso come un invito profondo a riscoprire se stesso ed è questo che l’ha portato a partorire l’ultimo full-length. Un ulteriore e deciso passo in avanti.
Altro cambio di etichetta ed ultroneamente si passa a dissonanze che si accordano l’un l’altro magicamente, Luke Temple si burla di tutti noi, ci sfida a trovare un nesso, confonde le acque e ci porta non si sa come ad apprezzare questo piacevole mélange sonoro.
Il cantante smette di crogiolarsi all’ombra di tanti riferimenti, già citati nel corso della monografia, per sfiorare una malinconica e bramosa saudade.
Parola non scelta a caso, dato che qui le suggestioni brasiliane sono visibili in alcune delle tracce maggiormente riuscite. La bossa nova non è la sola protagonista, la fida chitarra, e quindi il suo fingerpicking sono sempre prime donne e sovente alcune digressioni droniche riescono ad evitare uno traboccante mood bucolico. Infine l’album risulta leggermente ostico per un ascolto svogliato ma è proprio l’impalcatura ambigua a donare al disco una meandrica intimità.
Alter ego
Infine un’ultima annotazione. Esattamente a metà tra gli ultimi due album Luke si è anche preso il tempo per firmare un album sotto falso nome.
Art Feynman, questo il nuovo nome scelto, ha deciso di creare un nuovo pastiche dub-kraut, dove paradossalmente pur variando differenti registri musicali realizza uno dei suoi album più coesi. È l’album numero 10 e per l’occorrenza si è deciso non di rivoluzionare tutto ma di creare una rimescolanza di quello che aveva già partorito. Certo i rimandi afro, le percussioni scricchiolanti, le chitarre fuzzy erano già tra le righe degli album precedenti, eppure complice la nuova guisa il tutto si riconfigura sotto un’altra luce.

Suonare fresco, non scontato e sempre ricco di idee è difficile oggigiorno.
Bravo!

Bon vivant escapista. Commendevole fricandó di utopie. Indole appocundriaca. Loggionista alticcio.