“‘A verità, è che nun avete niente da dì”
Siamo agli sgoccioli di questo anno e la testa è già ai banchetti familiari che non temono confronto con la gustosa contrada del Bengodi.
L’animo è cheto e l’indole – cosa vogliate mai – è inoperosa. Non vedo l’ora di finire questi scampoli di giorni lavorativi per ancorare il mio didietro a quella sedia, sempre la stessa, a me riservata per diritto di maggiorasco.
Alla destra del padre (ma quanto suona pretenzioso questo inciso), nel lato buono del tavolo, ovvero incastrato tra la credenza, con esposto il corredo di matrimonio dei genitori e ben lontano da qualsiasi via d’uscita. Può sembrare una trappola, ma è un lusso a cui pochi possono ambire; infatti posso non alzarmi, lasciando il compito di apparecchiare, sparecchiare, pulire, passare antipasti e antipastini alla zia, alla mamma e al cuginetto che ancora non ha capito che fare il paraculo non porterà ad un pensiero più grande sotto l’albero di Natale.
E poi, è risaputo che vicino al pater familias il vino non scarseggia mai; ah, non vedo proprio l’ora che arrivi il “Santo” Natale.
Ed in tutto questo la musica?
Abbiate pazienza, proprio questi giorni di attesa mi hanno indotto in un circolo vizioso nel quale non vi era spazio per dedicarmi alla stesura di un articolo.
Dopotutto, dicevo tra me e me, il mio commiato per il 2019 l’ho dato con la playlist di Natale, che mai succede se mollo la spugna almeno per una volta? Poi, ho visto l’intera redazione giudicarmi con tono minaccioso. In un battibaleno questa visione ha fugato la mia peccaminosa disposizione vacanziera. Il calo prestazionale e il regresso ispirazionale parevano allora un voltafaccia immeritevole nei confronti di tutti.
Va bene. Afferrata l’antifona. Rimboccati le maniche ed inizia a scrivere qualcosa! Ma cosa?
Quattro chiacchiere e l’idea
“Mi dispiace, ma io so’ io e voi non siete un cazzo!”
Quel convito sontuoso non si dilegua dalla mente. Allora decido di giocarmi la carta “chiedi un aiuto da casa”. Inizio ad interrogare qualche collega e mi faccio dare dei consigli. Uno su tutti, proprio perché non era un vero suggerimento, cadeva ad uopo per colmare la “sindrome da documento word bianco”.
Nel parlar di cinema, io e il mio collega iniziamo citando alcuni mostri sacri della regia, poi passiamo ad alcuni montatori, scivoliamo verso qualche nome astruso da festival, per poi calare gli scudi e smettere di mostrarci “impegnati” e saputelli l’un l’altro.
Si passa alla commedia all’Italiana e, dopo la doverosa citazione ad Amici Miei e all’Armata Brancaleone, non dimentichiamo di citare alcune scene del Marchese del Grillo.
Finiamo lì la discussione e torniamo a lavoro; ritornando a casa però mi sovviene il fatto che la musica è stata curata dal compositore Nicola Piovani e penso: ecco l’articolo!
La gavetta
“Quanno se scherza, bisogna èsse’ seri!”
Se parliamo di compositori italiani prestati al grande schermo, di certo tra i primi nomi presenzia sempre Nicola Piovani.
Piovani iniziò la sua carriera musicando alcuni cinegiornali del Movimento Studentesco sessantottino; in quegli stessi anni sembrò abbastanza naturale che un giovane così politicizzato e talentuoso andasse anche a comporre le musiche per De Andrè.
La ditta Piovani-Faber compose il primo abbozzo anarchico, titolato Non al Denaro, non all’amore né’ al cielo, per confluire poi nel manifesto di tutto quel periodo, infettato di focose contestazioni, malumori, che degenereranno in quel terrorismo che cambierà per sempre la faccia dell’Italia. Stiamo parlando di Storia di un Impiegato.
Ma torniamo alle colonne sonore; in quasi 50 anni, il Maestro vanta un curriculum invidiabile e inattaccabile: Bellocchio, Monicelli, Taviani, Moretti, Fellini, Bertolucci,Tornatore, Benigni, con quest’ultimo vincendo anche un Oscar per la Vita è Bella.
Commedia all’Italiana
“Roma è tutta un vespasiano.”
Facciamo nuovamente un passo indietro.
Giusto a metà tra l’adolescenza “barricata” in scuole o case occupate e il premio che l’ha reso uno dei più grandi compositori di sempre, Piovani si trovò in mano una sceneggiatura della commedia di Monicelli, senza avere mai prima di allora preso in considerazione la possibilità di suonare per un film di genere.
L’occasione era ghiotta, lavorare con un regista di tale levatura, lo portò a rispolverare le prime esperienze teatrali divise tra farse teatrali e musica popolare, cucendo addosso al protagonista, il Marchese del titolo, un mix di romanità cialtrona mai sopra le righe e un perfezionismo ottocentesco che ancora oggi trova pochi emuli.
Bisogna dire che il trittico di siffatta dissacrante e disillusa commedia manca ancora della sua punta di diamante: con Alberto Sordi già protagonista di diversi film del regista, tra gli altri ricordiamo La Grande Guerra, qui rampollo della nobiltà papalina, si instaura un’intesa magistrale.
Il Marchese del Grillo
Episodio che mostra il felice sodalizio tra i due, è quando Albertone si propose addirittura di canticchiare burlescamente sulle note di mandolino in Mia Cara Olimpia, mostrando anche peculiari qualità canore, che vennero apprezzate in primis dal musicista e poi dal regista che decise di inserire questa scena semi-improvvisata.
Il brano che dà il titolo al film invece, Il Marchese Del Grillo, procede tra svolazzi di tromba e tamburellanti note di piano; il tema varia nel corso del film eppure ritorna sempre il canovaccio centrale, suonato con strumenti sempre diversi, raccolti dalla musica volgare, come ad esempio il mandolino.
Proprio questi espedienti popolari donano quella genuinità artigianale e un’ironia sardonica che cammina sottotraccia tra rimandi politico-religiosi ed esilaranti siparietti. Uno su tutti qui.
Ma forse la traccia che maggiormente mette in luce le qualità del Maestro sono racchiuse nel minuzioso accompagnamento teatrale del Teatro di Alibert; qui dopo un attento lavoro di ricerca per trovare una traccia che potesse adeguarsi alla sceneggiatura, si decise di inventarla di sana pianta.
L’inesistenza di un’operina adatta, spinse l’artista a scrivere lo stretto necessario per accompagnare la scena del marchese recato al teatro per visionare ed udire la prima opera teatrale in cui recitava e cantava una donna, e non un “castrato”. Nuovamente, si rivede uno dei temi principali, questa volta scritto per tenore e soprano, mostrando quando il nostro fosse pronto a manipolare a suo piacimento diversi registri melodici.
Nel complesso l’opera si rivelò singolare, evocativa e pensata con retta dovizia. Pertanto, pur antecedente ai suoi più grandi successi, Piovani mostrò una particolare perizia rimessa poi in mostra negli ultimi anni, come orchestratore delle sue stesse opere.
“Facce vedé ‘ste bellezze nascoste.”

Bon vivant escapista. Commendevole fricandó di utopie. Indole appocundriaca. Loggionista alticcio.