Colpevolmente scansati in passato, mi trovo solo ora a conoscere i Sunwatchers.
Una band newyorkese che negli ultimi anni ha generato un discreto seguito in ambito jazz. Non mero accademismo e nemmeno uno spiccato debito a trame free-form incomprensibili, semmai se proprio bisogna spulciare qualche nome potremmo inquadrarli nella ristretta cerchia capitanata dai vari Matana Roberts o The Comet is Coming.
Forse la scontata suggestione è guidata anche e soprattutto dalla centralità del sax, come strumento sia disturbatorio che di colore. O ancora dal turbinio di riferimenti inter-genere che vanno ad insinuarsi nelle fitte maglie tessute da questa nuova generazione d’oro.
Fatto sta che la curiosità mi rende famelico, tanto da indurmi l’acquolina in bocca quindi mi lancio intrepido nel nuovo ascolto.
Non mi perderò nel cencioso sofisticatismo del: “io li conosco dagli esordi” o “che sprovveduto che sei nel non conoscerli” o frasi di questo tipo.
In più, quale migliore palliativo ci sarebbe se non quello di affogare quest’indolente noia nell’otium d’agosto?
Va bene così allora, spostiamoci dall’altra parte del divano – pena le piaghe da decubito – accavalliamo le gambe, smettiamo di lottare con il vecchio ventilatore che cigola cigola ma non sposta aria e scopriamo queste nuove promesse del jazz moderno.
Parlerò del quarto ed ultimo progetto della band.
Il nome mi aggrada oltremodo, con quel suo attacco gioviale che ben si sposa con il nome della band, ed un punto interrogativo che fa capolino giusto a sconquassarne il senso: Oh Yeah?
Vediamo se questi apprezzamenti superficiali si tramuteranno in una colossale cantonata o in un elogio urlato al cielo.
Ebbene sì, la calura estiva mi rende meno tiepido nei giudizi. In o out, bianco o nero, Top o flop, Bleah o… Oh Yeah, appunto.
Oh Yeah?
Pochi ascolti e tutte le premesse vanno in vacca.
Altro che smaliziati jazzisti che stanno piacioni ad imbrunire al sole, qui si gioca a fare sul serio: jazz madido di lisergiche impennate rock e virulenti fiati lo fanno da incontrastati padroni.
La prima traccia si autoalimenta di una forza sacra, un raduno tribale che trova forza nel suo convulso reiterarsi. Sparso qua e là troviamo brandelli di chitarre febbrili che battibeccano con un sax stentoreo, utile nello scoperchiare una spiritualità debordante e mal taciuta.
Subito dopo ci troviamo rasserenati da un episodio a sé stante, instillato di un certo fare festoso che quasi ci trae di soppiatto. Un inganno calcolato, che ci porta a fischiettarne l’andamento pensando che il forsennato incipit fosse solo una involontaria sterzata.
Ma da lì i toni si rifanno reazionari. Da un cumulo di macerie sbucano chitarre metodiche che man mano deflagrano in un pulviscolo noise. Il sax entra tra le corde e non ne esce più, piroetta sul tappeto disegnando cerchi infuocati. Un debordante acrobata che punzecchia senza mai giungere al colpo del KO. Una forza erculea che si svuota in un amplesso onanistico.
L’udito è completamente molestato e i nostri non ci vengono certo incontro con toni conciliatori.
Le chitarre sprezzano sibilline segando il tragitto con increspature hard-rock pur distendendosi su un arzigolato canovaccio prog.
La penultima traccia del lotto ci lascia nuovamente respirare, un narcotico grunge impastato da rimandi medio-orientaleggianti che ci conduce all’epilogo. Una tela nella quale è stato riversato tutto lo scibile del gruppo.
Per quasi un quarto d’ora il motivo predominante è un eterno caracollare su un manto dissestato. A questo sommesso loop si intromettono diversi intermezzi sonori che arieggiano l’intera composizione, la traccia procede con la medesima andatura fino all’ingresso ancestrale del sassofonista. È uno sfogo sciamanico, un richiamo astrale che forza l’intero gruppo a stringersi all’unisono, sincronizzando l’ultimo assalto frontale.
Un album che spazia senza timore reverenziale su nomi di levatura leggendaria, penso a Mulatu Astatke, Terry Riley, Albert Ayler, Alice Coltrane tra i tanti.
Vi è tanto quindi, epitome inattaccabile di un nuovo modo di fare jazz.
Brave Rats
Non contenti i Sunwatchers decidono di sfornare anche un prezioso compendio, che riesce a non scadere nell’inutile riempitivo.
Un follow-up EP che racchiude in seno versioni live di vecchi pezzi, cover e gemme accantonate.
La title track funge nuovamente da inganno, perfetto collante con l’opera precedente. Lo spirito selvaggio, incarnato dal corno indiavolato, si dimena tra le cesoiate delle tastiere. Sciaguratamente siamo portati a credere che questo album voglia essere figlio putativo di un tronfio genitore.
In effetti non ci sarebbe stato nulla di male se i nostri avessero voluto bissare con alcune b-sides d’archivio, naturalmente fuoriuscite e tenute nascoste dalle innumerevoli prove del gruppo.
Ma non è questo il caso!
Una gaio fraseggio si prende gioco di noi rasserenando lo spirito. Il languore si spezza per brevi attimi da fugaci fervori senza però mai compromettere del tutto la gravitas.
Anche qui spuntano arabesche fascinazioni. Sembra di ascoltare un muezzin che assalito da un torpore atavico inciampa sulle scale del minareto.
In coda trova anche spazio un frammento di una vecchia colonna sonora da loro composta che chiude l’album con un pregevole minimalismo drogato.
So bene che l’ascolto può sembrare ostico, specialmente in un periodo dove si cerca a tutti i costi una vuota leggerezza, ma fidatevi di questo grigio blogger: concedetegli un paio di ascolti come ho fatto io. Non ve ne pentirete.

Bon vivant escapista. Commendevole fricandó di utopie. Indole appocundriaca. Loggionista alticcio.