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Suspiria: come Thom Yorke e i Goblin hanno dato voce a Nostra Signora dei Sospiri

Suspiria è una visione (non semplicemente prodotto filmico) che distende innumerevoli chiavi di lettura. Stratificazioni, sollecitazioni che grazie alla mano di Dario Argento hanno sottoposto lo spettatore, specialmente quello internazionale, ad una tortura sinestetica di suoni, colori, immagini al limite del grand-guignolesco.

Ma fosse solo per quel capolavoro, si parlerebbe di un exploit, di una meteora, ma qui si parla di un Maestro.

Ricordiamoci che prima di Suspiria aveva già diretto e composto – dopotutto parliamo di un poeta, forse ossessivo e fantastatico – La trilogia degli animali e Profondo Rosso.

Ecco. Tutto questo è ben sedimentato in Guadagnino, quindi è opportuno non partire dagli, ovvi, riferimenti al film originale quanto proprio dagli scostamenti che si traggono dall’immaginario argentiano.

Proveremo ora a fare un confronto tra i film di Argento e Guadagnino, comprese le loro colonne sonore.

Atto primo: 1977

Siamo nel 1977, ed il terrore non è solo dentro la mente di Guadagnino o Argento, ma è fuori nelle strade.

Bombe che esplodono, muri che dividono e il dopoguerra che ancora porta con sé le sue cicatrici.

La prima deviazione è già qui. Se in Argento quello che vi è al di fuori della storia, ambientata a Friburgo, ha una valenza pressoché minima, in Guadagnino invece, assurge a cornice ideale per gettare i protagonisti in un contesto storico ben delineato.

Addirittura la scuola di danza Tanz di Berlino, dove sono ambientate la maggior parte delle scene, è posta lì, a pochi metri dal quel Muro.

Interni dell’accademia di danza berlinese.

Dalle vetrate si può notare dirimpetto il Muro che divideva la città.

Atto secondo: Palazzi di lacrime

La scuola del remake, subisce pienamente, anzi pietosamente il periodo in cui è inserito. La struttura di stampo brutalista infonde già dalle prime scene un senso di angoscia intrinseca, che si discosta in maniera netta dal selvaggio e psichedelico liberty del primo film.

Inoltre quest’ultimo veniva estremizzato con l’uso articolato dei colori primari che si mischiavano maleficamente con i suoni naturali.

Si pensi solo ai tuoni e al vento e i rantoli percepiti dalle ballerine, quasi del tutto assenti in Guadagnino.

Curioso è il fatto di come, anche qui, il giovane regista decida di evitare un gioco al rialzo con il suo predecessore e impasti il film di un fondo di grigio che desatura completamente tutta l’inquadratura.

La visioneriaretà anarchica di Argento.

Qui la facciata della scuola di Friburgo.

Atto Terzo/Quarto: Prendere in Prestito/Prendere

Ma qui non parliamo esclusivamente di contesti storici, scenografie e fotografia, ma bensì di come il tutto possa essere poi condensato in scene che rimangono impresse nella storia del cinema.

Certo è che Argento, complice il tempo, ha visto la sua reputazione consolidarsi sempre più, venendo ora idolatrato come maestro del giallo all’italiana ed entrando a far parte del Gotha del Horror. Quindi sarebbe altresì limitante selezionare una scena da cui estrarre la summa del regista, essendo lui stesso il paradigma vivente di alcune scelte registiche: uso spasmodico della soggettiva, la reiterazione del flashback, l’ossessivo zoomare sul dettaglio chiave del film e se ne potrebbero scrivere ancora moltissime.

Per Guadagnino la faccenda è diversa. Per sua stessa ammissione, sorge in lui un odio repellente quando gli viene accollato uno stile, lui vive di sensi, da cui poi si dipanano le immagini del suo cinema.

E forse mai quanto la scena in cui Susie, segue in principio le indicazioni di Madame Blanc (una tripartirtica Tilda Swinton) per poi lanciarsi in un vorticoso e ansiogeno balletto in solo, arrecando ad ogni passo un danno ad Olga, che rimane imprigionata nella sala degli specchi sottostante.

Qui la cinepresa si muove in repentini e violenti tagli di montaggio che inscenano quella tensione di vita (Susie) e pulsione di morte (Olga) che fanno di questa scena a modo suo qualcosa di memorabile (instant-classic per gli esotisti).

Spesso viene additato a Guadagnino di piegare le sue scelte registiche ad un mero gesto dionisiaco, bello ma futile; ma qui tramuta la danza in un rituale, un incantesimo su cui poggia la storia stessa.

L’attrazione gravitazionale di Olga con Susie. 

L’estetizzazione di Guadagnino portata agli estremi.

Atto Quinto: Nella Casa della Madre (Tutti i Piani Sono Tenebre)

Anche le madri, sono ritratte in maniera antitetica.

In Argento le madri, mai peraltro messe così in risalto come nel film contemporaneo, erano più che altro evocate, percepite.

Importante infatti ai fini della storia, pur essendo abbastanza esigua la sceneggiatura, erano i rantoli o i rumori che percepivano le protagoniste.

Nella scuola aleggiava costantemente un presentimento mortifero che serviva a sostanziare il rimando stregonesco.

In Guadagnino invece le Madri hanno anche un lato politico, femminista, di resilienza, che sono figlie del loro passato.

Leggono il giornale, eleggono la curatrice della scuola, “giocano” a manipolare le proprie ballerine. Una vera è propria congrega di stampo matriarcale che rigetta la superiorità maschio-centrica per rivendicare la perpetuazione della vita.

E quale dichiarazione d’intenti migliore per mostrare la propria emancipazione se non governare, e farsi governare, il proprio corpo attraverso concetti classici come l’armonia e la bellezza, la rabbia e la sessualità, e quindi la loro rappresentazione materiale: la danza.

Atto Sesto: Suspiriorum

Se come detto prima il rifacimento odierno procede su toni cinerei e altresì vero che vede giungere ad un climax pregno di sangue. Un’esplosione quasi fulciana, che per questa sua “insensatezza” trova finalmente un riallacciamento alla tavolozza morbosa di Argento.

Un turbinio disturbante che ribalta quasi tutto quanto visto prima.

Nel titolo originale invece non si piomba in un finale così sfrenato ma si gioca di accumulo.

In esso vi era una visionarietà anarchica, lontana da qualsiasi soggetto reale. Anzi erano le emozioni quelle che importavano al regista: lo spettatore scattava dalla paura, si arrovellava per gli intrighi dei primi whodunit e finiva esasperato dalla suspense volutamente acutizzata.

Un affastellarsi di scene, apparentemente slabbrate che donano quell’aura di fiaba, sostanza irreale, che a maggior ragione creano disagio e provocazione.

Qui paradossalmente si vede all’improvviso un’inversione di rotta: la curiosità di Susie, peccato originale, che travalica addirittura la paura e il terrore che la stravolge, si ferma, davanti al sabba finale.

Sorprendentemente la paura viene solo intravista.

Epilogo: Una Pera a Fette

In quest’ultimo atto tratterò le due colonne sonore, entrambe a loro modo influenti nel camminamento verso l’ignoto, ideato dai due registi.

Mi piacerebbe dissezionare entrambi gli accompagnamenti come il frutto del titolo ma risulterebbe forse pedissequo e ridondante, specialmente quando si tratta del genere horror.

Qui le tracce vanno pensate quasi come un unicum, un volano emozionale che porta all’ambiguo desiderio di sbirciare la tradizione secolare avvolta attorno alla figura della donna-strega.

Goblin

Nel primo film Argento sceglie di affidarsi ai Goblin. Gruppo già reo di aver prodotto questo vorticoso pezzo del film precedente del regista romano.

Il gruppo di Claudio Simonetti affonda le proprie radici in quegli anni Settanta dove l’Italia ha visto una generazione di fenomeni come Ennio Morricone, Armando Trovajoli, Piero Piccioni, Riz Ortolani. E questa era solo la punta dell’iceberg.

I Goblin però si distanziano subito dai compositori del tempo per formulare sonorità del tutto inedite, che affondano le mani nella scena prog di quel periodo, infarcite da organetti sbilenchi, ritmi opprimenti che spesso assurgono a suggestione sensoriale primaria, contravvenendo all’idea che la musica debba essere contrappunto di un film.

Ossessiva e androgina è la loro colonna sonora, ma anche ricca di spunti che passano da un tipico folklore nordico fino ad una ambientazione dark, che nei primi Ottanta spopolerà.

Tutto questo porterà lo stesso film su un altro livello, poichè la colonna stessa creerà quell’aurea onirica che il film si prefiggeva.

Anzi è doveroso precisare come lo stesso regista entrò a far parte nei titoli di credito posti in copertina dell’album, proprio per sottolineare il contributo reciproco che entrambi portarono al genere ma prima di tutto alle rispettive carriere.

Thom Yorke

Thom Yorke invece procede seguendo un’altra direttiva.

Un pò come il regista che si è distanziato dal film originale, anche il musicista inglese ha ragionevolmente teso verso una musica più sommessa ed in alcuni tratti quasi grottesca.

Inoltre sarebbe stato quasi impossibile riprendere l’opera dei Goblin poiché troppo fissata al proprio periodo storico, e forse questo risulta l’unico problema di quell’opera immensa.

Qui l’ex Radiohead trova alcune soluzioni riuscitissime come la title-track, dove un valzer mitteleuropeo affoga in toni gotici nel finale oppure in Volk, dove si campane gotiche e synth striduli si mischiano in un turbine destabilizzante.

A parte le tracce medio lunghe, dove la mano dell’artista può sfruttare al meglio la propria creatività, le tracce intermedie figurano più come meri riempitivi che mal si pongono se l’album lo si ascolta svincolato dal film in questione.

Senza togliere la carica sperimentale, specie per alcuni intermezzi, si perde mordente, tendendo quindi verso un calo di espressività che inficia il prodotto finale.

Comunque penso che entrambi i film in primis ed in seguito le colonne sonore vadano sondate senza remore, perché al netto di qualche difetto (puramente soggettivo si intende), parliamo di due progetti meritevoli di una visione.

***Disclaimer***

Le due pellicole sono figlie di una stessa Madre che prende due strade diverse.

Questo remake ha la sua ragione d’essere proprio perché non è un rifacimento del grande classico, né per la regia quanto per la colonna sonora.

Qui non si scimmietta a qualche sequenza del primo film e nemmeno si cita a modi pappagallo alcuni accompagnamenti musicali. Dopotutto mai come nell’horror la musica diventa attore.

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