La parola cometa deriva del greco “kométes”, aggettivo che, letteralmente, significa chiomato, dotato di chioma (in greco antico “kòme”).
Con il passare dei secoli le comete sono state oggetto di studio da parte di naturalisti, scienziati ed astronomi. Questa schiera di esperti è stata in grado di carpire i moti ellittici, la composizione chimica dei loro nuclei e la pressione della radiazione solare che genera le lunghe e scintillanti code che solcano i nostri cieli tutt’oggi.
Di lato, vi sono stati numerosi artisti che hanno cercato invero di svelare, evocare ed amplificare questi segni mistici che hanno destato le più svariate credenze e superstizioni dovute soprattutto al loro carattere anomalo e seducente.
Questi segni celesti appaiono ai nostri occhi ancora oggi come un evento imprevedibile, improvviso ed enigmatico. È per questo che i primi hanno sempre avuto bisogno dei secondi: per concertare al meglio le scoperte scientifiche con il lato puramente contemplativo, giungendo così fino alla popolazione costantemente attratta da questi portatori di messaggi.
Tra il manipolo di artisti “stregoni”che hanno assiduamente volto il naso all’insù per scorgere il lato più autentico delle comete, degli astri e dello spazio in generale, non possiamo non citare Sun Ra. L’extraterrestre che con un ardore orbitale ha sondato in lungo e in largo l’Universo, dedicandogli una sterminata ed avanguardistica discografia.
Se oggi dovessi indicare il suo successore, il c.d. prescelto, di sicuro annovererei Shabaka Hutchings ed i suoi The Comet Is Coming.
Shabaka Hutchings
Sassofonista jazz. Inglese born and Barbados bred.
Il prescelto si avvicina alla musica suonando il clarinetto, per smetterlo una volta tornato a Londra, avvisando il sax come congeniale compagno di vita.
Il ragazzo è sveglio e soprattutto talentuoso; il jazz è il suo grande amore (e come potrebbe essere il contrario?) dato lo strumento che ha deciso di imbracciare!
Eppure in un certo qual modo l’etichetta di genere se la sente stretta. Decide infatti di sdoppiarsi, ma che dico, di triplicarsi partecipando a tre progetti paralleli.
Il primo è quello che lo proietta immediatamente nella ristretta cerchia di chi ha la stoffa per davvero, di chi può giocare con i grandi del passato, senza spocchia alcuna, con la voglia di ibridare calypso, soca, trip-hop e afrobeat.
Si parla dei Sons of Kemet, un guazzabuglio sonoro ad alto tasso di afrocentrismo. L’idea in nuce è proprio quella di evidenziare quanto la cultura africana abbia donato al mondo: si parte proprio dal nome, Kemet, il vecchio nome dell’Egitto dopotutto.
Il groove rimane padrone, la doppia percussione e la deliberata abolizione di strumenti a corda nell’ensemble di base non fanno che rimarcare quale spettro sonoro si voglia mettere in risalto.
Da afrocentrismo ad afrofuturismo il passo è breve. La dimensione del secondo progetto, targato Shabaka and the Ancestors, si fonda sul sodalizio con il funambolico trombettista sudafricano, Manda Mlangeni e i suoi antenati. L’intreccio si fa arioso grazie alla predominanza di fiati nel complesso. La musica si proietta verso un unisono alieno, fuori dal globo terrestre.
Tutto si mantiene su un equilibrio dinamico, poliritmico e riflessivo. Si ravvisa un giusto grado di distopia senza però tendere ad un senso di misticismo che avrebbe persino gravato ad un disco così ben collaudato. Sembra studiato a tal punto da suonare come puntigliosamente prestabilito. Eppure il loro unico album pubblicato è frutto di un’unica session di 75 minuti in studio, proprio per preservare una certa spontaneità.
Ancora inappagato il nostro decide di fondare nel mentre un terzo gruppo, siglando due album nell’ultimo anno sotto l’egida di The Comet is Coming.
Un turbinio cosmico
E torniamo dunque a quell’astro luminoso che solca il firmamento celeste con indicibile rapidità, schizzando lungo una linea parabolica che pare non avere fine.
Nel 2019 i The Comet is Coming hanno visto la loro parabola in costante ascesa, trovando meritatamente anche una consacrazione internazionale. Le loro incandescenti trovate musicali hanno provocato non solo il rispetto dell’odierna confraternita nu-jazz ma anche un certo senso di stupore proveniente dalle orecchie dei meno allenati.
Il pregio sta tutto qua, sembra poco ma non lo è affatto.
Riascoltando il primo dei due album Trust In The Lifeforce Of The Deep Mystery si colgono molteplici impulsi, temi ed incastri musicali senza scendere mai a compromessi. Sarà per l’utilizzo di una maggiore componente elettronica o per quei titoli inequivocabili nel richiamare una certa spiritualità ancestrale. O ancora per la scelta di tendere verso suoni sempre più grevi e profondi, specchio del distacco che il trio prova verso la società contemporanea. Fatto sta che tutto paia distante ma anche prossimo a noi.
Come una cometa appunto. Un fitto polverio di sassi cosmici che prosegue la sua corsa silenziosa, astante dai fatti che ogni giorno dilaniano la nostra terra. Scrutante ma mai dominante.
Il gemello riflessivo
Dopo un tale big bang di riferimenti così alti, politici, filosofici non poteva che giungere contagioso un secondo album.
Meno incalzante e persuasivo del precedente senza però discapitare in termini di radicalità di proposta.
The Afterlife è dopotutto figlio delle medesime registrazioni. Non un mucchio di b sides pescate come semplice riempitivo per allungare il vittorioso tragitto del momentaneo successo.
Vere e proprie voci complementari che apportano una dimensione globale a tutto il loro discorso, creando il perfetto equilibrio tra sperimentazione formale e propulsione narrativa.
Forse dopo questo glorioso viaggio è giusto che il passo di questa sfavillante cometa si faccia più lento e riflessivo.

Bon vivant escapista. Commendevole fricandó di utopie. Indole appocundriaca. Loggionista alticcio.