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Top 5 album da riscoprire

Onore a chi li ha scoperti ai tempi, un peccato per chi se li è persi. Diamo un’occhiata a 5 album che meritano una seconda occasione.

5 – Blur, The Magic Whip 2015
A 12 anni dall’ultima pubblicazione, Damon Albarn rilascia con la vecchia cumpa questo album quasi a sorpresa, anticipato dal singolo Go Out che tanto ricorda lo stile brit-pop così caro alla band inglese, nonostante siano indubbie le diverse influenze musicali che ogni componente, una volta maturate e sviluppate nel corso degli anni, ora riversa nel calderone comune.

Va infatti ricordato che il frontman si è lanciato nell’ultimo periodo in un progettino B-side (Gorillaz vi dice qualcosa?) e che anche gli altri membri non sono stati di certo con le mani in mano. Quello che nasce da questa reunion non è una mera continuazione dei Blur che si erano presi una pausa ad inizio millennio, quanto piuttosto una sintesi ben curata del loro progresso musicale, viziato, in bene, da un panorama che non poteva fermarsi a Song2.

Ice Cream Man è una ballata apparentemente spensierata, ma con un testo che fa riferimento al totalitarismo cinese, I Broadcast è di stampo Bluresco con un pizzico di Radiohead (l’inizio ricorda troppo quello di Burn the Witch, anche se le somiglianze si fermano lì) mentre There Are Too Many of Us ha quel velo di malinconia tipicamente d’oltremanica che solo chi è inglese sembra poter cogliere. Insomma, album perfetto per chi credeva di conoscere i buon vecchi Blur e vuole farsi sorprendere.

4 – The Servant, The Servant 2004
Molti di voi sicuramente non li hanno nemmeno mai sentiti. Non vi biasimo, io per primo ho dovuto farmi convincere con più ascolti sulla bontà genuina della band, dopo che la traccia Liquefy aveva fatto parlare di sé su Mtv e addirittura Top of the Pops (nostalgia canaglia). Ma, eccomi qua ed eccoli qua. L’opening track Cells è diventata perfino colonna sonora del cult movie Sin City, e continuando alla scoperta dell’album ci si imbatte in una serie di piacevolissimi brani, a volte leggeri a volte più intimi.

Il filo conduttore è la risposta umana alle più comuni questioni interpersonali: l’inizio di una relazione, la sua fine; l’alienazione sociale e la facilità di coesione. Ma c’è anche una denuncia ben evidente al sistema di identificazione capitalista, che impone sulle nostre teste costumi ed obblighi da ufficio. Tutto questo raccontato però con intelligenza compositiva e musicale, un album mai banale. Da segnalare sicuramente la traccia Orchestra, anch’essa testimone di una cavalcata mediatica tutt’altro che immeritata ai tempi della pubblicazione, e Jesus Says, traccia quasi nevrotica, ironicamente evocativa. Da (ri)scoprire.

3 – Violent Femmes, Violent Femmes 1983
Diamo a Cesare quel che è di Cesare. I Violent Femmes non sono soltanto la band che i Gnarls Barkley hanno citato per la cover Gone Daddy Gone, sono molto di più. Ed il loro album d’esordio lo dimostra. Inconfondibile il loro stile punk-rock e folk, una batteria ridotta all’essenziale ed un basso che per forza e crudezza sovrasta quasi sempre la chitarra del cantante Gordon Gano, che si diverte per la durata di tutto l’album a raccontarci delle sue sventure amorose, di alienazione, dei suoi eccessi con la droga e, a volte, di tutte le cose insieme, una conseguenza dell’altra.

Tutto questo risulta in un album che diventa sfogo, grido di frustrazione per una giovinezza che non porta a nulla se non doveri ed imposizioni, prigionia di tumulti sessuali che non riescono a trovare espressione. Add it Up ne è l’esempio più concreto, una tipica ballata folk, arrabbiata e che fa arrabbiare, che culmina nella traccia successiva, Confessions, una serie di interrogativi simil esistenziali che tradiscono un equilibrio mentale ormai vicino alla rottura.

Sulle dinamiche di un amore non corrisposto avanza anche Promise, facile da seguire per tema trattato e per ripetitività di riff e strofe. La chicca resta però proprio Gone Daddy Gone, probabilmente l’unica canzone della storia che è riuscita a farci innamorare di un riff di xilofono. Spoiler: impossibile limitare il bisogno di ballarla spasmodicamente fino alla sua fine.

2 – Il Teatro degli Orrori, Dell’Impero delle Tenebre 2007
Da un tormentato ed eclettico frontman come Pier Paolo Capovilla non poteva che nascere un tormentato ed eclettico debut album, e le premesse sono state più che rispettate. ITDO nascono al crepuscolo di quell’ondata indie rock tutta italiana che sarebbe sfociata poi in modo discutibile in un indie più pop e commerciale (termine che personalmente ripudio, ma che qui ci sta tanto bene).

Il Teatro degli Orrori si mostrano per quello che sono, crudi se non crudeli, disillusi ma comunque romantici, al limite tra il sacro ed il profano. I suoni sono forti e diretti, non c’è filtro alla chitarra di Gionata Mirai, che ad ondate più o meno cadenzate graffia le tracce dell’album. Anche in questo caso però, il maestro d’orchestra è il basso, che tesse le tele di ogni canzone, insospettabile artefice di questo Impero. A tutto questo va sommato l’interpretazione quasi teatrale di Capovilla, che alterna strofe cantate a strofe recitate, un intimo soliloquio di cui noi ascoltatori siamo testimoni.

Non c’è un brano che non valga la pena di ascoltare, ma se volete un consiglio, lasciatevi trasportare dalla forza de La Canzone di Tom, una ballata d’amore per un amico perduto, per un ricordo che non deve mai svanire.

1 – Neutral Milk Hotel, In the Aeroplane Over the Sea 1998
Sicuramente la band più atipica tra tutte quelle menzionate, il gruppo fondato dal chitarrista Jeff Mangum ha vissuto una giovinezza di richiamo, un successo che si è coltivato con gli anni e sfociato postumo alla pubblicazione dell’album. E a proposito, si tratta un concept album che ruota intorno alla figura di Anna Frank, la bambina ebrea che tenne un diario personale durante l’olocausto della seconda guerra mondiale.

L’opening track, The King of Carrot Flowers Pt1, è subito seguita da Pt2&Pt3, in un climax crescente di chitarre acustiche ben pizzicate prima e frastuono rock folk poi, fino alla title track dell’LP, chiave di volta del concept album: Mangum, così colpito dalle vicende riportate nel suo diario, costruisce una connessione atemporale con Anna, nutrita da compassione, rabbia e voglia di giustizia, se anche fosse solo raggiungibile cantando la sua storia.

Il messaggio dell’album è riuscire a lasciare qualcosa anche dopo la nostra partenza, la nostra morte. Che sia testimonianza per tutti, di cui Mangum si fa carico. Potentissima è anche Oh Comely, racconto di un abuso familiare che inquina la purezza di una giovane ragazza e del genere femminile in generale, prima di tornare nuovamente su Anna Frank e la sua morte. Ma anche Two Headed Boy, Holland, 1945, che dire, se ve lo siete persi la prima volta non commette di nuovo lo stesso errore.

 

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