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William Doyle: uno sfavillante pop bucolico

Tutto ebbe inizio con la seminale band (ehm?) Doyle and the Fourfathers.

Lo so bene cosa starete pensando: ma chi sono costoro? E chi mai li ha ascoltati?

Ecco appunto, nemmeno io li avevo mai incrociati in articoli, recensioni, playlist o trasmissioni radio, quindi mi pare chiaro quanto possa essere poco credibile parlarne proprio qui e ora.

Ripensandoci, non capisco proprio per quale motivo debba sempre comportarmi da saputello che tenta di discernere il vero, di risalire la corrente artistica di un autore solo perché magari mi ha intrigato col suo ultimo lavoro.

L’artista in questione è William Doyle e il suo album titolato Your Wilderness Revisited, autoprodotto e rilasciato l’anno scorso, mi è piaciuto assai.

Come promesso, non la prenderò così alla lunga, ma la mia errante curiosità mi costringe quantomeno a riprendere i fili dell’avventura accantonata dal nostro da almeno un lustro: East India Youth.

Total Strife Forever

Primo album, senza contare l’Ep licenziato dalla allora etichetta-costola del magazine The Quietus, da cui poi estrapolò una traccia che inserì nel lotto (Heaven, How Long).

Reo di non essermene innamorato al tempo, il disco fu subito rivelatore di quanto Doyle fosse sì debitore di un certo sofisticato Kraut Rock, di un sibillino Synth-Pop e dell’ambient più contemplativa, Harold Budd in primis (sotto la geniale ala di Brian Eno, ndr).

A mia discolpa posso dire che la trasversalità di temi mi colpì subito. I rimandi, come detto, erano di una certa caratura, il tutto veniva poi condito da un algido cantautorato che trangugiava con letizia una contagiosa melodia e frattanto si abbandonava a esplosioni cosmico-espressive.

Su tutto, in maniera parzialmente controintuitiva, vi condivido non l’album in questione ma la playlist che lo stesso autore ha pubblicato sul personale account Spotify. Da questa semplice collezione di brani riusciamo, infatti, a scorgere al meglio la summa di spunti e influenze che sono poi state incanalate in Total Strife Forever.

Culture of Volume 

Peccare di distrazione è lecito ma essere accusato di recidiva è sinonimo di ignoranza.

Pertanto, nel 2015, alla seconda uscita, non mi sono fatto trovare impreparato. Vigile mi sono adagiato supinamente sul letto di sintonizzatori tramato da William Doyle.

Culture of Volume si rivelò subito pronto a risolvere i “difetti” denotati lungo il primo disco. L’amalgama era compiuto: la vocazione pop parve non più sopita, i ricami elettronici da tessuto connettivo tra brani divennero l’organo vitale di tutta la composizione.

Il synth non fungeva più da collante di un talento a volte discontinuo ma da mezzo per giungere a un danzereccio candore emotivo. Inoltre, proprio la scelta di stilare una scaletta con strumentali, poste all’inizio, intermezzo e chiusa e una voce più cosciente dei propri mezzi stavano a dimostrare la completa maturazione in fase di arrangiamento.

Qui, bando alle ciance, vi riporto questa enorme matassa pari pari.

Your Wilderness Revisited

L’accumulo di soluzioni sonore, la cassa dirompente, il rumore bianco che si faceva monolite vede una brusca sterzata intimista.

L’irradiante carica emozionale si denuda dal fardello massiccio dei padri putativi, oltre ai già citati vanno menzionati almeno i Pet Shop Boys, i Soft Cell e il David Bowie berlinese, per scivolare soavemente verso derive quasi crepuscolari (non che fossero assenti nei lavori precedenti, per carità, ma pur sempre abbozzati sotto una coltre di sfavillante motorik).

Una cosa che invece rimane dal progetto abbandonato è il ragguardevole talento dell’accumulo. Una successione di microsuoni quasi nebulizzati in un pulviscolo che tende verso l’alto.

Un’ascensione verso un suono delicato e denso al contempo, una penetrante sublimazione che culmina verso l’ultraterreno.

Non poteva essere altrimenti, William Doyle giunge al suo ultimo album dopo un periodo piuttosto turbolento a livello emotivo, una chiusura psicologica che ha scoperchiato i fantasmi e le ansie del passato. La morte del padre, gli attacchi di panico adolescenziali e le vie di fuga che si è dovuto creare per scappare da un’emarginazione tanto temuta quanto vicina all’avverarsi.

La depressione non poteva essere espressa con l’afrore derivante da una doccia Techno e nemmeno da un lussureggiante electro-pop. Il registro muta quindi verso un suono più spaziale, spirituale e introverso.

La partecipazione commossa, il senso dell’infinito e una vocalità sempre più diafana suggellano nel “nuovo” Doyle l’homo viator che dalla voragine emotiva si sospinge verso un futuro misterioso che gli si apre davanti.

 

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