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Wim Wenders e il suo eterno viaggio

Cosa sarebbe Wim Wenders senza lo spazio? Questo inteso come luogo che attornia e attrae e pervade.

Qualunque luogo rifratto dalla lente del regista è sempre rivelatorio.

Compenetrato nell’animo dei protagonisti, riesce a metterne in luce le parti più ignote.

Non vi è mai quasi nulla di antropizzato nello spazio wendersiano; ciò che vi è attorno non si distende placidamente ai capricci umani, non viene manipolato per scopi narrativi ma si sostanzia nella stessa diegesi da cui si dipanano poi i viaggi del regista.

Viaggio è la parola giusta, non solo per il semplice fatto che la sua casa di produzione si chiami Road Movie Filmproduktion ma, anzitutto, per sua stessa ammissione, per l’assenza di racconto senza un luogo fecondo di stimoli.

Impulsi poi mischiati nel proprio mazzo della mente.

Mente che ha girovagato il mondo e che, in questo articolo, avrà come fermate due film a me cari: Paris, Texas e Lisbon Story. Dai titoli di nuovo si denota l’importanza dei luoghi come modelli stessi della narrazione, isotopie che riordinano le storie in fatti ricorrenti cari al regista.

Ma ancora, come se non bastasse, andremo a sottolineare quanto la musica si insinui magnificamente in un disegno che aiuterà a renderlo più grande.

Paris, Texas 

Nessuna spiegazione può essere icastica e pregnante quanto le immagini stesse.

Questo sembra suggerirci Wim Wenders dal suo incipit. I primi minuti di questo capolavoro – mio preferito in una, bisogna ammettere, spesso altalenante carriera – ne raccontano il film stesso.

Un arido deserto ai limiti del mondo e una altrettanto laconica slide guitar riescono in pochi attimi a tratteggiare la solitudine che da lì a poco ci mostrerà lo stesso Travis, protagonista apparentemente muto, avvicinandosi una tanica alla bocca e bevendone l’ultimo goccio d’acqua.

L’ambiente circostante getta la sua luce abbacinante su questo strano fantasma in cappellino, portandoci a pensare come questo possa guidarci al di fuori di esso.

Ma il deserto, come la strisciante chitarra, rimangono presenti con la loro minaccia, come la sabbia che si insinua nelle scarpe rotte o come il sudore che si incastra nella barba incolta esemplificando così un vuoto interiore che rimarrà impigliato nell’allampanato protagonista. Uno spazio vuoto che porterà inesorabilmente a una solitudine umana, tracciandone il destino. Dal nulla al nulla insomma.

Non proseguirò con la disamina del racconto per non rovinare la visione ai – spero – pochi assenti senza giustifica, concentrandomi maggiormente sul ruolo centrale della colonna sonora composta da Ry Cooder.

Ry Cooder non è solo uno dei migliori chitarristi della storia ma anche un etnomusicologo navigato. Anche lui viaggiatore incallito cercherà di carpire, lunga tutta la sua carriera, l’approccio musicale delle diverse etnie terrestri riversandole poi, sospese, sul dorso del fidato bottleneck.

Un lavoro di sottrazione che darà linfa all’intero corpus filmico. 

L’apicale desert rock

La title track ci introduce subito in quello smisurato malessere che non ha via di uscita o scorciatoie ma che, per un attimo, riesce ancora a sperare. Sperare in una terra salvifica, qui intesa come appezzamento di terra nuda e desolata (la Paris texana del titolo), evidenziata da pacate raffigurazioni che spesso si librano in svolazzi slide astratti.

Una musica struggente, spossante, che culmina in una fitta rete metallica che ammanta lo spleen del protagonista (Nothing out there).

Nota a latere, un mai troppo lodato Harry Dean Stanton, qui nei panni di Travis, irrompe con un aspro e acerbo spagnolo (Cancion mixteca) spezzando l’andamento dell’album e anticipando di quasi trent’anni un’altra apparizione come “cantante” nell’improbabile compleanno mariachi di Lucky, peraltro una delle ultime apparizioni del nostro.

E poi subito diretti a Houston, passando per Los Angeles, con una She’s Leaving the bank che si asciuga nuovamente attorno alla chitarra, questa volta però accompagnata da un archetto che non fa altro che allungare i tempi di attesa tra una nota e un’altra conferendogli una certa pulsione latente nelle precedenti tracce.

Nella penultima traccia il chitarrista lascia spazio alla voce dei due protagonisti (Stanton e una toccante Nastassja Kinski) che in pochi attimi innalzano la sequenza madre del film con impercettibili cedimenti emozionali segnando indissolubilmente la scena più toccante dell’intera pellicola.

Ry non deve far altro che sopraggiungere e accompagnare delicatamente la confessione dei due con asservita delicatezza.

L’epilogo ripercorre per la terza volta la traccia che porta il titolo dell’intero album ma in maniera del tutto sfibrata, abbandonata a sé stessa. Testamento addolorato e stordente che mette fine al viaggio interiore di Travis.

Lisbon Story

Esattamente dieci anni dopo Paris, Texas, Wim Wenders ritrova il Portogallo, già sfondo de Lo Stato delle cose.

Anche qui il viaggio ricopre un ruolo di prim’ordine. Primariamente girato in macchina e ambientato poi nella capitale portoghese.

La trama è presto detta. Un tecnico del suono riceve una cartolina da un vecchio amico regista ripiegato a Lisbona per la lavorazione del suo ultimo film (Rudiger Vogler) e si decide a raggiungerlo. 

Diverse vicissitudini durante il tragitto lo porteranno a ritardare decisamente il suo arrivo. Giunto a destinazione non trova l’amico ad aspettarlo, ma solo ragazzini, inverosimili operatori dello stesso regista, che continueranno a tormentare all’inverosimile il protagonista riprendendolo con le loro cineprese.

L’assenza dell’amico non lo abbatte e, preso dalla noia, inizia a registrare tutti i suoni che la città attorno a sé ha da offrirgli. Inoltre, nelle stanze della casa sempre aperta che lo ospita, ha l’occasione di conoscere i Madredeus, un gruppo musicale che sta registrando la colonna sonora del film in sospeso. Che sarà poi la stessa incisione che accompagnerà Lisbon Story. Un curioso in-out degli stessi componenti che verranno proprio lanciati dal film di Wim Wenders.

Ainda, ainda
Indubbio che a svettare è l’inconsueta voce di Teresa Salgueiro, di cui si innamorerà il protagonista.

Da lì in poi quest’ultimo si lancerà alla ricerca del regista scomparso. Lo ritroverà afflitto, stregato dalla stessa città che voleva ritrarre. Talmente scoraggiato dal decidere addirittura di abbandonare il progetto a causa di un’apparente contaminazione dello sguardo causato, a detta sua, dalle scorie lasciate da chilometri di pellicola. 

 

“..puntare una cinepresa è come puntare un fucile ed ogni volta che la puntavo mi sembrava come se la vita si prosciugasse dalle cose. Ed io giravo, giravo, ma ad ogni colpo di manovella la città si ritraeva spariva sempre di più…” 

 

Eppure mai come in altri film del regista si sorride, la trama si fa sottilmente ironica e solare.

E qui il lavoro dei Madredeus ne diventa la naturale sublimazione con le sue melodie fragili intervallate da ritmi gai e trasognati.

Il mediterraneo si apre ai nostri occhi, Lisboa con i suoi barri ci pervade, la musica scandaglia i pelaghi psichici di Winter rendendolo un tutt’uno con la città. La malinconica musica, che si rifà ai Fado portoghesi, lo spingono ad abbandonare la dimora e le letture per farsi ipnotizzare dai vicoli, dalle scalinate, dal sole caldo e abbandonarsi all’amore.

Le chitarre sono quasi sempre pizzicate, costruendo un ponte su cui erge la voce arcaica e celestiale della Salgueiro. 

Azzeccata anche la scelta di ritrarre le scene musicali in stanze semi buie, per esasperarne la voce intimista, impaginando un folk da camera cullante ed ammaliante.

 

 

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